Satira

Una serata alla Scala

Ero stato invitato a Milano per assistere a una importante serata della Scala. L’autore dell’invito era il mio caro amico Censor, che negli anni Settanta aveva pubblicato un curioso pamphlet dal titolo Rapporto veridico sulle ultime opportunità di salvare il capitalismo in Italia. Uscii dall’atrio della stazione centrale e me lo trovai davanti: un uomo d’altri tempi, altissimo, col suo cappotto spigato, stava fumando appoggiato al suo “squalone” nero che aveva conservato intatto da quegli stessi anni Settanta. Mentre guidava era pensieroso e si esprimeva con parole simili a quelle che aveva usato in quel suo geniale pamphlet: “questa società, caro Guy, ci conviene perché c’è, noi vogliamo mantenerla per mantenere il nostro potere su di essa. Molti anni fa, una domenica del novembre del 1969, i miei passi risuonavano lugubri nel silenzio di questa città, ma si tratta di questa stessa città che hai davanti, anche se tutto sembra cambiato”. Lo “squalone” piroettava veloce in mezzo a smart car, giovani in monopattino, pakistani in scooter che correvano a consegnare chissà quali esotiche cibarie, mentre d’intorno lampeggiavano le luci digitali delle decorazioni natalizie di negozi e negozietti nella sera decembrina già inoltrata. “Sembra tutto così lontano da quella fine 1969, quando risuonarono scoppi di bombe – era dicembre anche allora – ma era lo stesso Stato in tale pericolo da dover opportunamente manovrare contro se stesso certi strumenti estremi del proprio mantenimento per mostrare a tutti che, con lo Stato, tutti erano in pericolo” (Censor, Rapporto veridico sulle ultime opportunità di salvare il capitalismo in Italia, Scotti Camuzzi Editore, Milano, 1975, p. 70).

Fumava guidando, e il posacenere dello “squalone” era pieno zeppo di cicche. Parcheggiò nelle vicinanze del teatro, in un parcheggio centrale riservato a personaggi dell’alta finanza, dove Censor era conosciutissimo. Ci recammo a piedi alla Scala facendoci largo tra le contestazioni, niente a che vedere – mi disse lui – con quelle degli anni Settanta, quando a contestare nella folla c’era anche “Coda di lupo” col suo cavallo muto che una notte di gala, col suo sasso a punta, uccise uno smoking e glielo rubò. Entrammo e consegnammo i cappotti al guardaroba: lui era impeccabile nel suo smocking e anch’io me la cavavo, senza raggiungere il suo livello di eleganza. Eravamo in anticipo e per ingannare l’attesa mi portò al bar, dove ci bevemmo una decina di campari con seltz, specialità della casa. Poi ci dirigemmo al nostro palco, che si trovava a metà altezza, dal lato opposto a quello imperiale. Era una serata di gala importante e allo spettacolo erano presenti diverse personalità. Nel palco imperiale, accanto al presidente della Res Publica, c’era la principessa Giorgiana Poponis de Benitis, che, con indosso il suo abito di Carpani da ottantacinquemila euro, sedeva su un cuscino intarsiato di gemme posizionato su un gigantesco popone (ah già, caro Censor, noialtri toscani chiamano “popone” il melone). Accanto a lei il generale argentino Ignacio Lo Ruttos era impeccabilmente rappreso nella sua divisa sferragliante di spallette e polsini dorati e dal suo volto magro spiccava il pizzo lunghissimo ed elegante. Vi era anche un’importante figura politica straniera, Elsa von Strotten (dal nome sinistramente simile al mio) e altri importanti ministri e senatur.

Censor, degno facitore di quel lontano pamphlet, sapeva tante cose ignote ai più. Ad esempio, che praticamente tutto il pubblico odiava l’opera che era rappresentata, il “Boris Godunov”, perché era russa. La vedevano come una inconcepibile intromissione del governo del Ras-Putin negli affari del paese. “Ahi serva Italia, di dolore ostello!” – si lasciò scappare il mio ospite in un sussurro. Insomma, tutti odiavano l’opera russa e, di nascosto, avevano organizzato un sabotaggio bello e buono. I servizi segreti di Segrate avevano ordinato di spargere sul palco del gel disinfettante che, fino a poco prima, all’ingresso era servito per disinfettarsi le mani dal Covid, sempre in agguato, sempre pronto ad aggredire anche i potenti. Il famoso tenore Mascelloni, che interpretava Boris Godunov, dopo le prime battute, scivolando sul gel, cadde rovinosamente sul palco, facendo risuonare il legno con la sua abbondante ciccia. Grida, risate, buuu, lanci di carote e uova si levarono da tutti i palchi. Contemporaneamente, all’insaputa dei servizi di Segrate, un altro sabotaggio era stato organizzato da un gruppo neonazista tedesco, capeggiato da Enrico VII, il principe di Homburg, al cui interno era presente anche un nucleo del battaglione Zabov. Essi dovevano rapire la celeberrima soprano russa Galina Ulianova, che interpretava il personaggio di Marina Mniszech.

E allora fu il caos: la principessa Poponis de Benitis fu presa da risa convulse mentre al suo fianco il generale Lo Ruttos si esprimeva con sonorità confacenti al suo nome. Galina Ulianova strillava incessantemente, inseguita da un soldato del battaglione Zabov dirigendosi verso Enrico VII, il principe di Homburg nonché capo dei congiurati neonazisti, il quale proclamava in un dialetto del Brandeburgo la presa di possesso del teatro mentre innumerevoli pulcini neri di nome Pulcinik erano usciti dalle uova lanciate e si spargevano su tutto il palco. I servizi segreti di Segrate, in tutto questo, se ne erano andati a mangiare la pizza insieme a un mago mentre il povero Mascelloni, che di pizze ne avrebbe divorate almeno cento in quel momento, continuava a rotolarsi sul palco ricoperto di gel disinfettante. Mentre accadeva tutto ciò, una banda di valorosi ignoti, inseguiti dagli sgherri del ministro del Neocolonialismo, faceva sventolare dal palco imperiale la bandiera del Marocco.

Fu in quel momento che Censor mi prese sottobraccio e, sussurrando lentamente questi versi del divin conte Leopardi (“Dipinte in queste rive / son dell’umana gente /le magnifiche sorti e progressive”), mi portò fuori dal teatro, fuori dal caos. I nostri passi risuonarono grevi per i marciapiedi di una Milano silenziosa e notturna, quasi come in quei lontani anni Settanta. Mi portò in un bar lì vicino, elegante e discreto, dove ad attenderci c’erano altri innumerevoli, meravigliosi, sublimi, celestiali bicchieri di campari con seltz.

gvs

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