La vendetta della lupa mannara
Erano tempi assai duri per la contea di Las Hurdes. I nobili prepotenti spadroneggiavano un po’ ovunque nel villaggio e nei territori vicini: inseguivan per le strade le fanciulle, adornavan con ghirlande di bastonate le spalle di qualche marito e di qualche padre, banchettavano con le uova di gallina fresche e genuine dei pollai della zona e si servivano alle cantine del villaggio autoregalandosi costose bottiglie di Amontillado divino. Il più feroce di tutti era don Ignacio de Ruttis, col baffo spiovente e lo sguardo irriverente, che faceva una insistente corte a madama Teresita. Il figlio del nobile, don Ablondio, poi, s’era invaghito d’una popolana, tale Lucinda Tondellas, e la perseguitava con perpetui inviti a cena.
Nelle loro passeggiate per le infuocate campagne della contea (in estate si sfioravano i 45 gradi), Lucinda si lamentava con la sua amica Lobolita delle continue insistenze di don Ablondio che, nonostante fosse un discreto giovinotto, si dimostrava infino assai volgare. Per di più, Lucinda era promessa sposa a un giovine dabbene e lavoratore, tale Lorencillo o come dicevan tutti Cillo, il quale non era a conoscenza delle insistenze del nobilotto. “Lobolita” – “cara amica mia” – diceva quasi in lacrime Lucinda – a Lorencillo non ho detto niente, non vorrei che si prendesse pena per me o che, addirittura, armandosi di coltello, facesse qualche sciocchezzuola”. “Sbagli, cara Lucinda” – rispondeva Lobolita – “dovresti dirlo al tuo Cillo; e se anche si lanciasse in un rusticano duello con quel prepotente, ebbene, quel damerino avrebbe ciò che si merita”. Cillo, infatti, era abile col coltello e passava le sue serate libere a esercitarsi al tirassegno della taverna del paese, fra un bicchiere e l’altro di cerveza.
Lobolita aveva un carattere forte, diverso da tutte le altre ragazze del paese. Le sue origini di popolana erano mescolate ad origini ancora più oscure e lontane che si perdevano nella notte dei tempi. Pare che i suoi antenati fossero legati all’antica casata tedesca dei Beowulf, che aveva la sua sede naturale nella Foresta Nera, nel castello di Grimmhausen. Delle sue arcane ed antiche origini era rimasto ben poco: un barile di Amontillado sul quale svettavano incise le lettere BW e che suo padre, mastro Ginito, il fabbro del paese, conservava come un vero e proprio tesoro. Una sera, dopo aver saccheggiato tutte le bottiglie di Amontillado del villaggio, don Ignacio e i suoi bravacci avevano sfondato la porta di casa di mastro Ginito pretendendo di essere condotti in cantina. Alle orecchie del nobilastro, infatti, era giunta voce che il povero fabbro aveva un prezioso barile di quella divina bevanda. Il poveruomo implorava e implorava don Ignacio e i suoi sgherri di lasciarlo in pace; il più cattivo della gang, detto il Grizzly, gli sferrò un cazzotto sul naso spaccandoglielo completamente. I bravacci, vestiti come dei pagliacci, con i cappelli a sonagliera, scesero dunque in cantina e, di forza, sollevaron il barile e lo portarono al castello de Ruttis. Don Ignacio era contento e, nelle sere successive, dopo i pasti, dal suo castello si sollevaron dei rimbombi come di tuono che facevan tremare i tuguri del villaggio.
Anche don Ablondio, erede del nobilaccio, aveva compiuto un’azione degna d’un bulletto di strada. Aveva fatto rapire il povero Cillo dal Grizzly e lo aveva rinchiuso nella segreta del suo castello. Così, adesso, anche se il promesso sposo di Lucinda fosse venuto a conoscenza della sua torbida passione, non avrebbe più potuto nuocergli con i suoi coltellacci. Ogni sera Ablondio passava a caballo davanti a casa di Lucinda e la invitava a cena: una sera voleva portarla alla Porcarola, un’altra alla Piantina Senese, un’altra ancora alla pizzeria da Ringhieri, un’altra all’Arto Vecchio. Ma la fanciulla rifiutava e, sdegnosamente, nascondeva le sue lacrime. Passava le sue notti a piangere e piangere anche perché non aveva più notizie del suo amato Lorencillo.
Lobolita, da parte sua, non poteva più sopportare questo stato di cose: sia lo stalkeraggio alla sua amica del cuore sia l’atto di violenza nei confronti di suo padre nonché il furto dell’antico barile. La giovine aveva un aspetto fiero ed era forse l’unica della sua stirpe ad aver ereditato l’antica fierezza dei Beowulf. Intanto eran passati i giorni e ad una caldissima estate era subentrato un autunno caldo. Durante le notti di luna piena, Lobolita si sentiva strana e avvertiva, a volte, una inquietante metamorfosi in lei. I canini prominenti nella sua bocca luccicavan al cogitamento di una dentata sul collo di Ignacio, due fori dai quali i rutti sarebbero diventati fontanelle di sangue. Ella aveva reputato che il rinculo (Chi ricorda Sweet Child in Time dei Led Zeppelin? Il ricochet: see the blind man shooting at the world with his bullets flyng) causato dai ruttis lo avrebbero intrappolato, ritornando su di lui, se si fosse trovato davanti un ostacolo adatto. Così pensò che una grande damigiana chiusa da un tappo, contenente etere e solfiti tossici, poteva creare una nube che lo avrebbe fatto svenire. Sarebbe bastato solo scrivere che il contenuto era un vino francese invecchiato di alta qualità e lui sarebbe cascato a terra dopo averla aperta per bersela, perché le sue bevute erano celebrate con il boato di un rutto iniziale, quasi come il segno della croce prima dei pasti per molti cristiani. Con un fazzoletto al naso i suoi canini lo avrebbero preso al collo. Avrebbe raccolto il suo sangue per fare il sanguinaccio e invitare i suoi amici tedeschi della foresta a mangiare assieme. Questo era anche un piano per una serie di omicidi: a partire dai componenti della famiglia DeRuttis, compreso il terribile Ablondio, sarebbero seguiti gli attacchi ai prepotenti padroni, suoi familiari, LaRuss, quindi tutti i RusFasci, che erano rapacissimi di poveri e di donne.
Venne la sera dell’omicidio premeditato. A Lobolita crebbero peli bianchi e grigi sul corpo, le sue orecchie si allungavano in alto, anche il viso si era allungato per la crescita della mandibola. I molari erano lunghi ormai almeno 5 cm: gli ormoni del desiderio di sbranare erano saliti a livelli astronomici nel suo sangue e la metamorfosis in lupa era fatta. Ignacio suonò il batacchio del portone. Lei stette nascosta e non rispose, e quando entrò e vide il bendidio davanti emise il boato che precedeva la bevuta. Come previsto cadde a terra e Lobolita addentò il collo; il sangue sgorgò zampillante e inondò la stanza. Del collo non rimase che uno straccio secco e le parole di Ignacio prima di rendere indietro la sua poca (o porca?) anima a Dio furono: “come? Una femmina di lupo è sempre una femmina, il mio charme non bastò per incantarla e per portarmi a letto? Anche lo mio uccellin si sgonfia ora, è veramente la fine.”
E così giustizia era fatta. Cillo venne liberato e poté coronare il suo sogno d’amore con Lucinda. I giovini si sposarono ed ebbero una meravigliosa creatura, che era tutta suo padre. Vissero in pace e serenità lontano dalle angherie dei potenti. Questo, infine, è il sugo di tutta la storia, con il quale potrete condir gli spaghetti stasera a cena, dopo un bel segno di croce. Qua perciò finisce questa nostra storia, vogliate bene a chi l’ha scritta e anche un po’ alla rivista che l’ha accolta. Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che lo si è fatto apposta.
Francesca Fiorentin e gvs