Novelle

Spettri tossici sul porto (seconda puntata)

(Seconda puntata; qui potete leggere la prima, uscita domenica scorsa):

Dopo aver assistito a quella lugubre processione, Jones e Piccioni rimasero stupiti e straniti, esterrefatti e amareggiati perché entrambi capirono subito che si poteva fare ben poco per fermare quei terribili spettri. Si salutarono e Piccioni si diresse triste verso casa per poter dormire almeno qualche ora prima di prendere servizio in Centrale. Jones andò anche lui a casa ma non poteva smettere di pensare a quello sguardo che aveva incrociato. Non aveva dubbi, lo avrebbe riconosciuto fra mille, era Jim, un suo carissimo amico che era stato imbarcato come marinaio sulla Pipucci, il veliero mercantile specializzato nel trasporto di tabacco da pipa dalle Indie occidentali, che da qualche anno era stato messo in disarmo. E Jones pensò: “magari ci fossero ancora velieri come la Pipucci, ci sarebbe meno inquinamento, ma li hanno voluti sostituire con mezzi più comodi e veloci, macchine a vapore e poi motori a scoppio…. Macchine veloci ma con un risvolto mostruoso, come cantò Carducci nell’Inno a Satana (“Un bello e orribile mostro si sferra, corre gli oceani, corre la Terra”, e bisogna dire che Jones aveva fatto solo la quinta elementare ma aveva letto e studiato per conto suo così tanto da saperne più di un incartapecorito docente accademico). Come fare per poter parlare con il suo amico Jim? Per interrompere quella sua danza spettrale, quel suo movimento inquieto dovuto forse a chissà quale maleficio? Gli venne un’idea: sapeva che Jim, quando la Pipucci si fermava in porto, amava passare le sue serate a gustare i calamari fritti di Benny, là alla baracchetta del “porto matto”, e a bere freschi e aulenti vini bianchi. Pensò che forse, vedendolo seduto a un tavolino di Benny, forse si sarebbe fermato. Decise di provare la sera stessa, senza naturalmente avvertire l’ispettore Piccioni.

Già, e Piccioni? Dopo una giornata di lavoro in cui non era riuscito a venire a capo di nulla, stanco e disilluso, se ne tornava a casa. Camminava nella luce irreale del tardo pomeriggio e le strade erano semideserte. Sembrava una luce di apocalisse postatomica, forse da qualche parte la bomba era già scoppiata e lasciava le sue tracce di solitudine e di desolazione. Il cielo era velato da nuvole biancastre e grigie e a tratti si levava un vento che sembrava giungere da distopici disastri avvenuti in qualche incomprensibile era. Certo, il vento era un sollievo nella calura terribile ma aveva in sé un non so che di inquietante, un vento elettrico o chimico provocato da chissà quale insondabile evento. Nella sua infanzia non ricordava quel vento, il mare era immobile negli eterni pomeriggi quando lui bambino camminava sul fondale algoso dei Quattro Ponti, e non faceva così caldo. Quella sera era diversa da tutte le sere delle estati del passato, placide, calde ma sopportabili, avvolte da un gentile abbraccio di convivialità, quando le persone invadevano le strade per iniziare il rito di una festa popolare. Adesso non c’era quasi nessuno in giro e il silenzio appariva come una cappa opprimente. Di lontano si intravedeva il mare, non più azzurro e fermo come nel passato ma agitato quasi da argentei carri che rilucevano sotto un torbido sole e lo stesso mare ingrigito appariva senza vita. Certo, sul lungomare continuavano i riti dell’estate e probabilmente c’erano anche una folla ed un caos fuori dal comune ma era come se un alone di pesante malattia fosse sceso sulla festa e sui suoi rituali. L’estate era percorsa da venti quasi d’inferno, lembi elettrici di tempeste che non lontane, forse, passavano ed erano i segni dei tropici che avanzavano anche nella placida città mediterranea e che avrebbero potuto provocare disastri e trombe d’aria e tsunami e uragani. Era finito il tempo dell’innocenza, pensò l’ispettore Piccioni mentre si dirigeva verso casa intristito. Eppure le persone, intorno, sembravano non essere cambiate (sembravano): i volti di quegli uomini di porto, di operai di un cantiere che ormai non esiste più li rivedeva uguali ogni giorno, gli stessi di quando era bambino; uomini che la sapevano lunga, che avevano passato la guerra e i bombardamenti, e lui bambino li vedeva coi loro sguardi quasi immortali aggirarsi sui moli, sui lungomare estivi, alle gelaterie, alle feste dell’Umiltà alla Ruttonda d’Arbenza, al Cisternetto la domenica pomeriggio a mangiare il panino al prosciutto, ai bagni Torrente fissi al bar a petto nudo a bere zampari soda, con grandi occhiali da sole e collanine girare fra i banchi del mercatino amerigano di piazza 26 settembre. Sì, loro avevano visto la guerra ma oggi la battaglia era quasi quotidiana, di fronte a un clima inferocito e impazzito, e non potevamo più guardare la realtà coi loro sguardi da eroi epici rinchiusi in un mondo lontano. Non ce lo potevamo più permettere, avevamo perso qualsiasi innocenza.

E fu così che la sera stessa Jones rinunciò alla pesca e si sedette a un tavolo del “porto matto”, ordinò una porzione di calamari e una bottiglia di bianco e si mise ad aspettare. Attese, ed era ormai tardi ma ai tavolini di Benny c’erano ancora diversi avventori a bere e a parlare. Ed ecco che vide gli spettri di fumo volare leggeri sopra la città. Vide anche Jim divenuto spettro e a lui probabilmente toccava l’ingrato compito di soffiare putridi fumi sui tavoli di Benny. Ma appena vide il suo amico Jones, gli tornarono alla mente, come emergendo da lande remote e lontane, quelle immense serate passate con lui ai tavolini di Benny, a raccontarsi storie di pirati e di terre remote, di gioie e amarezze. Jim, avvolto nel nero smog, si fermò e si sedette accanto a Jones, al suo tavolo che se ne stava in un cantuccio vicino alle barche da pesca. “Che ti è successo, Jim? Cosa mai sta accadendo?” disse il pescatore con un filo di voce. Con una voce ancora più flebile, dopo diversi colpi di tosse, Jim cominciò: “Sarebbe troppo lungo raccontarti tutta la storia. Ti dirò soltanto che quando la Pipucci venne messa in disarmo fui assunto come mozzo sulla Tosta Discordia. Era un lavoro pesantissimo e noi ‘ultimi’ eravamo sottoposti a ritmi di lavoro estenuanti; mi trovavo insieme a marinai cinesi e pakistani, thailandesi e filippini e noi addetti alla sala macchine ci stavamo trasformando noi stessi in macchine. Così avvenne che un terribile incantesimo, ordito dallo sceicco Bin Salabin, l’armatore segreto di tutte le navi da crociera della flotta, per farci lavorare in modo più prestante, ci trasformò in fumo dei motori. L’incantesimo, purtroppo, colpì anche i marinai di tutte le altre navi, traghetti compresi, condannati di notte a trasformarsi in spettri di fumo denso e a vagare attraverso le città in cui ci fermiamo e a inquinarle”.

Detto questo, Jim si sollevò dalla sedia, come spinto da una forza misteriosa, e si alzò in aria per concludere il suo inquinante percorso attraverso la città. Jones, lì per lì, rimase intontito dal racconto di Jim ma subito si riscosse. Oltre a inquinamento selvaggio, c’erano storie di sfruttamento e di costrizioni senza precedenti, addirittura per mezzo di un incantesimo! Doveva avvertire subito l’ispettore Piccioni! Il giorno dopo, infatti, di buon mattino si recò alla Centrale per conferire con quel silenzioso e simpatico poliziotto con la pipa perennemente tra i denti.

gvs

(Fine seconda puntata. Continua domenica 23 luglio)

 

 

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