Al bar dell’estate
Passavo tutte le estati al bar “Il carrozzone”, all’angolo con piazza Milano, insieme ad Alfred Tennyson e Pablo Pecos. Il padrone del bar ci aveva spiegato che il locale doveva il suo nome a un vecchio carrozzone di gitani che tanti e tanti anni fa si trovava proprio lì a quell’angolo. Erano gitani dell’est che avevano viaggiato attraverso tutta l’Europa e dell’Europa avevano anche provato gli orrori e gli odi razziali. Si erano fermati in città interrompendo il nomadismo della loro anima e dal carrozzone ormai fermo regalavano liquori divini, schnaps, grappe e vini della migliore tradizione ungherese e viennese. Erano tanti gli estimatori che si fermavano, perlopiù in piedi, a sorseggiare i nettari da quei bicchierini dai vetri magici e colorati.
Tennyson stava seduto al solito tavolino tutti i pomeriggi con le gambe accavallate e la ciabatta sempre penzoloni gli cadeva dal piede. Parlava di anni prima, quando con l’amico Zorbas, a bordo della sua Velvet blu, si perdeva in escursioni incursioni rutilanti per le colline, alla Valle Maledetta, a fare bagni nei torrenti e nei laghi, e una volta incontrò anche un gruppo di gnomi e addirittura un alieno atterrato con un’astronave, lì, nei pressi di Pollognole. C’era una pozza, chiamata appunto dello gnomo, su a Montequadrato, e di notte ne sentiron le voci. “Ah, Tennyson, ubriaco nato sotto le stelle in Caledonia” – diceva Pecos – “trovane altre di storie per i nostri pomeriggi randagi e stupendi, qui all’angolo di piazza Milano”. E Tennyson prendeva in mano il bicchiere e sorseggiava la rossa bevanda, rossa come il tramonto che ogni sera ci sparava negli occhi la sua luce da via Montebrutto. Eravamo lì, fermi, bloccati, da anni inermi nella stagione crudele che ti azzanna le membra, quell’estate tropicale e bastarda che ti inchioda all’inerzia, alla balordaggine, alle cose che vanno, che passano come il tempo che è un soffio, che è un lampo, che è un barlume che si riflette nel bicchiere pieno di rosso. E vedevamo la gente passare, ci si chiedeva se andavano al mare oppure no o chissà dove andavano. “Guarda quei due in bicicletta” – diceva Pablo – “hanno asciugamani da mare, sicuramente li aspetta l’azzurra distesa e un magico cocktail di fronte a un tramonto”. “Guarda quella famiglia a piedi” – continuava Tennyson – forse si perderanno su un lungomare eterno e scenderanno nelle cale a fare un bagno refrigerante”. Il mare era un lontano paese di Cuccagna, il regno di prete Gianni, il reame di Utopia. Era il Giappone incantato, la Cina del Gran Kan, il paese degli Iperborei dagli esili corpi.
Eppure Tennyson, fra le sue scorribande, raccontava di esserci stato. Si era avventurato fino sul lungomare immerso nel caos, ne aveva percorso i viali, ne era stato attirato e respinto. Era arrivato fino sul viale Francia e alla Terrazza Rossini. Camminò sulla Terrazza e si sentì proiettato in ere lontane, in atmosfere liberty e silenziose, senza il rumore del traffico e le grida sguaiate. Senza la rete wireless che arrivava dovunque. Raccontò di essersi trovato in una placida luce di tramonto, i passanti intorno eran vestiti con fogge primo-Novecento e dai bagni “Biscotti Caldi” era tutto un passaggio di principi e principesse. Era un silenzio di sogno ma poi esplose l’uragano del caos: di nuovo motori, auto, motorini incessanti, voci di bagnanti, suoni cupi di navi. Ed aveva camminato ancora, oltrepassato la Baracchetta Verde fino all’Accademia Caviale, ne aveva sbirciato il caai-detto elegante che percorreva gli odorosi viali interni, fino agli scogli ove svettava la statua del capitano Nemos che sempre guardava il mare, incurante delle tempeste. Aveva oltrepassato i bagni Torrente ed era giunto fino alla Ruttonda d’Arbenza e si era fermato a bagnarsi in cale irroranti, dagli almi sapori e sentori, dai suoni odorosi di alghe. Aveva proseguito fino a Postignano e di nuovo era sceso in cale meravigliose ove il mare si stagliava in azzurri luccicanti. E aveva solcato in sandali il lungomare terroso, fra pittori intenti a immortalarne la bellezza accoccolati su seggioline di fronte ai loro cavalletti, col sigaro in bocca. Aveva proseguito fino a scogli immani, laddove il sentiero si perde in una strada dall’inverosimile traffico, fra castelli e di nuovo silenti calette. E Tennyson raccontava, raccontava ma forse aveva fatto un viaggio fantastico nella sua mente, dopo un bicchiere di quel paradisiaco rosso Zampari, chissà…
E allora fu Pecos a raccontarci di essersi inerpicato lungo i moli del porto, fino a una punta silente fatta di scogli, fra i pescatori. Piccoli fari vi si trovavano, abbracci notturni per i naviganti, e da lì poteva vedere le navi passare, quelle lame che fanno male ai nostri sogni e li confortano. Erranti bisonti di sogni, carcasse d’avorio con uomini stanchi, cargo dai nomi più strani ed enormi traghetti passarono di fronte al suo sguardo. E Pablo se ne stava lì, nell’estremo lembo di terra, a sentire le aure frizzanti e gli zefiri dolci, inani tormenti da mari lontani e impensati, venti di ere remote che si frangevano sulla costa. E fu un viaggio il ritorno, un’erranza abissale ai confini del mondo, un remoto risalire sui moli, coi suoi sandali rotti, imbastiti di vento. E le colline lontane invitavan con la loro frescura ed i boschi eran chiazze di verde lontane, sogni di pittori silenti, perduti in incanto di terra.
Quanti racconti, quanti sogni di terre e di mari al nostro bar dell’estate! Ero felice di passare le ore insieme a Tennyson e Pecos negli eterni pomeriggi irrorati d’una calura irreale. Ricordi emergevano e noi lì come tre relitti vivevamo di ricordi, di ricordi e d’incanti che, come il mago della lampada, uscivan dal bicchiere del rosso Soda Zampari, il nettare nostro divino. E se crudeli erano i giorni, se le ore a volte affioravano come spietati killer e i minuti come mostri che ti facevano a brani, là, al bar dell’estate, tutto era un magico sogno d’incanto in un rosso bicchiere. Là, nei nostri bicchieri, bevevamo il tramonto, l’ora più bella e silente di questi giorni gitani.
gvs