“La zona d’interesse” e l’orrore quotidiano
La zona d’interesse (The zone of interest, 2023) di Jonathan Glazer, tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis del 2014, sceglie di raccontare l’orrore dei campi di sterminio non descrivendolo direttamente, nella sua forma più brutale, come hanno fatto diverse altre narrazioni sia letterarie che cinematografiche. Sceglie invece di raccontarlo descrivendo ciò che è vicino e adiacente alla dimensione dell’orrore: uno spazio, cioè, normale, disarmante nella sua incredibile normalità quotidiana. Il film si apre con le immagini di boschi, di ruscelli, di un paesaggio rappresentato come un luogo ameno e ideale, costruito quasi secondo i dettami del topos letterario del locus amoenus. Inserita in questo paesaggio vediamo la famiglia del comandante di Auschwitz che sta facendo una scampagnata per ritornare a casa al calar del sole. Lo spazio rappresentato, e più ancora la casa con il giardino in cui vive la famiglia, si trova vicino a uno dei luoghi più terribili e infernali del Novecento: il campo di concentramento di Auschwitz. Solo il muro alto del lager divide i due spazi. Eppure, come già notato, quella campagna, quella casa e quel giardino sembrano normali, non hanno niente, in sé, dell’orrore che si consuma nelle immediate vicinanze tanto che lo spettatore può arrivare a chiedersi: possibile che possa esistere uno spazio così bello e tranquillo come quella campagna, come quel torrente nel quale la famiglia si reca a pescare e a fare il bagno, possibile che possa esistere un giardino così curato e perfetto nonostante la presenza, a poca distanza, di un inferno nel quale si sta consumando un genocidio? Questa domanda possiede in sé dinamiche estremamente perturbanti e rimarrà senza risposta.
Il regista ci mostra questi spazi percorsi da potenti appendici sonore: i suoni, appunto, di ciò che avviene dintorno, siano naturali, voci umane o rumori prodotti dalla presenza umana. I suoni, fin dall’inizio delle inquadrature, dopo uno schermo nero che sembra preludere ad una dimensione quasi inenarrabile, fanno la loro irruzione nel racconto a commentare le immagini come se fossero le appendici più banali e insignificanti della realtà. È la realtà, infatti, a essere costantemente presente in scena: quei suoni, inseriti in presa diretta con una tecnica che può ricordare certi film di Eric Rohmer come, ad esempio, Pauline alla spiaggia (Pauline à la plage, 1982), vogliono infatti connotare immediatamente il racconto come innestato all’interno di una situazione brutalmente reale, scandita da in una ripetizione scontata e abbrutita della dimensione quotidiana. I suoni in presa diretta, come in Rohmer, inseriscono il racconto in una dimensione reale e fisicamente presente: la storia è scandita dal rincorrersi dei suoni che, in uno scontato rintocco, ci segnalano la presenza di una quotidianità incessante. Ma, nello spazio del giardino, ai suoni della realtà si mescolano anche i suoni e le voci dell’inferno: rumori sordi di macchine e meccanismi, forse lembi sonori di un mostruoso lavoro (quell’arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, frase infernale posta proprio all’ingresso di Auschwitz), grida umane di sofferenze e torture. I suoni e le voci dell’inferno, mediante la tecnica del suono in presa diretta, si trasformano nelle sonorità grige e scontate che scandiscono la quotidianità. Come a voler affermare: ormai l’inferno fa parte del quotidiano; non c’è più differenza fra mostruosità e quotidianità.
Esiste una impermeabilità tra i due mondi che è agghiacciante. Uno dei numerosi figli del capo di Auschwitz gioca con dei denti, intuiamo che sono quelli cavati agli ebrei; la moglie indossa una pelliccia e si guarda allo specchio. Sa almeno lei la realtà spaventosa del lager? Pare non avere abbastanza cervello per pensarci pur non essendo una demente ma una brava organizzatrice della vita familiare, che è un idillio con un grande giardino, una piscina, un orto e varie coltivazioni di fiori. Già, perché la signora è attratta dalla bellezza dei fiori come solo un’ anima sensibile può fare. Eppure tutto dimostra che sono solo stupide virtù, conoscere i fiori, creare giardini, e di virtù grande c’è solo l’umanità e la solidarietà verso gli esseri umani. La virtù coniugale della donna non è che una ben misera virtù. Il bene deve diramare da un altro centro da cui tutte le piccole virtù nascono, pena avere dei comportamenti schizofrenici, vizi egoistici e orrori.
La vicinanza fra spazio della cecità, di una lancinante normalità e spazio dell’inferno ci può far pensare a molte contraddizioni anche della nostra società. Ad esempio, usciti dal cinema abbiamo visto un giovane che dormiva sotto i portici, solo, esposto al freddo di una giornata piovosa mentre a pochissimi metri molte persone stavano consumando dolci e bevande in una elegante pasticceria. Certo, non vogliamo davvero fare un paragone tra la mostruosità dei campi di sterminio o dei nazisti che di essi erano responsabili con una situazione del genere: però, alla fine, ci rendiamo conto che due ‘zone’ così vicine sembrano non interagire e non entrare in nessuna comunicazione. Lo stesso si può dire delle guerre che lambiscono la ricca Europa, dell’Ucraina, dello sterminio di Gaza, dei lager allestiti per i migranti in Libia, a pochi passi dall’Italia. Le persone che mangiano i dolci in pasticceria non hanno colpa riguardo alla condizione del giovane all’addiaccio come, direttamente, la ricca Europa non ha provocato la guerra in Ucraina, lo sterminio di Gaza o le torture inflitte ai migranti o, ancora, non è responsabile dei naufragi nei quali gli stessi migranti perdono la vita. Ma, come quei nazisti, c’è un desiderio e quasi una volontà di non guardare, di far finta di niente. L’orrore nasce anche da questo: da una vicinanza fra ciò che è inferno e fra ciò che inferno non è, laddove manco ci si accorge della sua esistenza.
Per Codice Rosso, AS Jane e Guy van Stratten