Le parole del potere. Il politico brand nell’era della imagocrazia
In questi giorni, nel corso di una conferenza stampa, Matteo Renzi ha dichiarato la sua intenzione di candidarsi alle elezioni Europee “con il brand Il Centro”. Non che le conferenze stampa e le intenzioni di Renzi destino, almeno in chi scrive, un minimo di interesse, ma la scelta di definire la formazione politica con cui intende candidarsi come un “brand” rende tutto ciò degno di spendervi alcune righe.
In un volume di alcuni anni fa, lo studioso Guerino Nuccio Bovalino scriveva di come, abbandonate le forme tradizionali di democrazia, nei tempi recenti la dimensione politica si sia indirizzata verso forme inedite di videocrazia, comunicrazia e imagocrazia (G.N. Bovalino, Imagocrazia. Miti, immaginari e politiche del tempo presente, Meltemi, Milano, 2018). In Italia, alla prima tipologia, contraddistinta da una politica legata ai media in maniera verticale e verticistica, apparteneva il fenomeno Berlusconi, alla seconda, riconducibile alla partecipazione digitale, è possibile inscrivere l’affermazione del Movimento 5 Stelle, mentre per quanto riguarda l’imagocrazia, essa, sostiene l’autore del saggio, si alimenta nel «luogo dove si svolge la nostra relazione con l’ambiente e gli altri esseri viventi: un’atmosfera nella quale si mescolano idee, libri, visioni, film, pubblicità, vissuto quotidiano, fumetti, cultura alta e cultura bassa, filosofia e banalità. L’immaginario chiamato in causa è filtrato, prodotto e riprodotto dai media e nello specifico soprattutto dalle nuove tecnologie digitali. Il politico ha ormai metabolizzato le dinamiche del consumo e vive interamente all’interno di questo brodo babelico e poliforme di immaginari (e solo con esso può sperare di sopravvivere)» (Ivi, pp. 20-21). All’interno di tale zibaldone, continua lo studioso, il leader politico è un brand come lo sono Nike e Apple.
Nonostante Renzi abbia fatto ricorso al termine brand per indicare la formazione con cui intende candidarsi, è evidente che nella sua visione della politica “Il Centro” coincide con il suo ideatore, dunque il brand di cui parla è essenzialmente egli stesso. Matteo Renzi è un brand, e in quanto tale ha il compito di ottenere profitto. Mai come oggi gli ambiti dell’immaginario, del politico e dell’economico risultano così indissociabili.
Nel registro politico contemporaneo si ricorre spesso a termini che contengono/suggeriscono già un giudizio di merito, il fine ultimo. Emblematico è il caso della renziana riforma denominata “La buona scuola”: se si chiama così, sarà indirizzata ad una buona scuola e chi la contesta ne contesta la finalità sbandierata, cioè ottenere, appunto, una buona scuola. Un meccanismo analogo è stato utilizzato, a suo tempo, nella scelta del nome “Polo delle libertà e del buon governo”: chi si oppone a tale raggruppamento politico, si oppone alle finalità di “libertà” e di “buon governo”. A tal proposito, il rimando al celebre ciclo pittorico, del Buono e del Cattivo governo, del Lorenzetti, presso il Palazzo Pubblico di Siena, è immediato. Mentre però nel caso degli affreschi trecenteschi, oltre agli effetti in città e nel contado del buono e del cattivo governo, ci vengono mostrate, attraverso allegorie, anche le caratteristiche che contraddistinguono i due tipi di governo che determinano quegli effetti, l’immagine politica contemporanea sembra saltare le fasi intermedie; questa, forte di una sua supposta qualità taumaturgica, propone direttamente l’esito, non importa spiegare, né saprebbe farlo, con quali mezzi ed attraverso quali qualità. Per certi versi si propone come esito. Quella riforma È la Buona scuola. Quella formazione politica È il Buon governo.
Lasciando al suo destino “il bomba” fiorentino, vale la pena riprendere alcune riflessioni avanzate da Bovalino nel volume a cui, suo malgrado, il brand dall’ego smisurato ha riportato alla mente. Scrive lo studioso che se storicamente l’essere umano ha tentato di colmare il vuoto fra sé e il mondo che abita ricorrendo a figure mitologiche, religiose, ideologiche, capaci di trasformarlo in un soggetto in grado di «agire sul mondo e di relazionarsi con esso, quale parte di una rete più ampia dove egli individualizzava la propria esistenza con un’idea della vita e un progetto specifico», oggi, quel dispositivo capace di consentire all’essere umano di divenire soggetto storico è colmato dai media e dagli immaginari derivanti dall’intrecciarsi di nuovi e vecchi simboli trasfigurati dalle nuove tecnologie.
Nella contemporaneità, secondo Bovalino, è possibile individuare una triade di mitologie esistenziali, di archetipi determinanti altrettanti macro-immaginari riconducibili ai miti di Prometeo, Dioniso e Orfeo.
«Il mito di Prometeo è la volontà di potenza insita nel messianismo di Obama, così come nelle distopie di un controllo burocratico e tecnicistico della società, e dunque in tutte le forme di progressismo e fideismo e nella rivoluzione affidata alle mani dell’Eroe e del Supereroe (che sia poi una rivoluzione liberale o tecno-utopistica poco importa)» (Ivi, p. 23). Epifenomeni di questa progettualità possono essere colti in chi pretende di farsi esportare di democrazia ai quattro angoli del mondo, negli utopismi cyber-democratici e nei roboanti progetti universalistici e post-politici neoumanisti.
«Il mito di Dioniso e dell’errante ebbrezza racconta del rifiuto di ogni paradigma fondativo della modernità, di un’accanita critica del progressismo in nome di un rinvenuto primato del sentire, dell’emozione e della sensualità dell’essere». Sarebbero epifenomeni di tale suggestione «le corrispondenze e la comunione con la vita e l’accondiscendenza a ogni desiderio intimo, allorché gli individui restano quotidianamente immersi nelle proprie esistenze digitali come avatar che consumano se stessi e gli altri» (Ibid.).
«Il mito di Orfeo, infine, si caratterizza come tensione verso un ritorno al sangue e alla terra. Uno sguardo dritto negli occhi dell’apocalisse che i seguaci di Orfeo scorgono nella contemporaneità, infestata dall’invasività tecnologica e dalle ideologie gender, che sono l’apice di un attacco inarrestabile a ogni forma tradizionale e spirituale di ideale comunitario e naturalistico della vita. Orfeo è un monito che brama un atto superomistico predestinato a materializzarsi a dispetto della virtualità delle nostre vite digitali». In questo caso Bovalino fa riferimento a un magma eterogeneo e contraddittorio che non di rado si incanala verso logiche identitarie e di difesa della famiglia tradizionale che individuano nella religione un ruolo di collante sociale. «Si scorge fra gli orfici una rinnovata critica del capitalismo, uno schieramento trasversale e post-ideologico che si pone contro i poteri cosiddetti forti che a giudizio loro ne giustificano le ingiustizie, perché frutto di quella che è comunque l’unica forma politica capace di mantenere in vita il migliore dei mondi possibili» (Ibid.).
D’altra parte, parlando di brand e politica, non dobbiamo mai dimenticare che il fine della stessa politica non è poi troppo diverso da quello della società dei consumi: convincere un elettore a votare proprio quel partito e non un altro. Nello stesso modo, un consumatore deve essere convinto a comprare proprio quel prodotto e non un altro, sia esso una scatola di biscotti, uno smartphone o un’automobile. Come nel capitalismo più sfrenato, poi, la produzione di voti, ugualmente come la produzione di profitto, è dissociata da qualsiasi intento etico o civile: se per il capitale è indifferente vendere torte al cioccolato o testate nucleari pur di raggiungere maggiore profitto, così per il politico è (generalmente) indifferente il modo in cui si procura i voti. Come scrive Robert Kurz, «naturalmente, qualsiasi produttore, a seconda del suo maggiore o minore buon senso, in un modo o nell’altro intuisce l’assurdità o persino la pericolosità sociale del suo operato; nonostante tutto, però, l’astratto interesse monetario spinge ogni produttore verso quei prodotti e quelle forme produttive che gli garantiscono il massimo guadagno monetario, nel modo più rapido e diretto, a dispetto dei contenuti e delle conseguenze, per quanto deprecabili» (R. Kurz, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale, a cura di S. Cerea, Mimesis, Milano, 2017, p. 87). Ciò vale, crediamo, anche per il sistema politico e a maggior ragione per un sistema politico inserito, come un microchip in un grande cervellone elettronico, nel più grande e onnicomprensivo sistema capitalistico.
Se gli slogan politici sono sempre esistiti, anche preesistenti a quelli della pubblicità (almeno nella realtà italiana), è a partire dalla spettacolarizzazione della politica (e guardiamo sempre all’Italia), vale a dire all’incirca dagli anni Ottanta che vedono il progressivo trionfo del berlusconismo e, a seguire, dai Novanta, che la politica abbraccia, fino a trasformarsi negli odierni brand, la spettacolarità più ostentata al pari di una grande lobby aziendale. Inutile, a questo proposito, ricordare le copertine delle riviste di costume, anche quelle più becere, e gli articoli dedicati ai gossip o alle vacanze al mare dei politici. La memoria rimanda agli anni Ottanta, quando cose simili comparivano sul settimanale “Gente”. Ci sembra assai difficile immaginare i politici degli anni Sessanta e Settanta (un Leone, un Saragat, un Moro, un Nenni) oggetto di servizi gossip come quelli di “Gente”. E la stessa funzione di quel settimanale, oggi, la rivestono i social in cui sono spesso gli stessi politici a mettere in vetrina la loro vita privata.
Oggi, più che mai, concetti astratti legati al vivere civile, all’interno della macina spettacolare della politica, si trasformano, per utilizzare il lessico offerto da Jean Baudrillard, in «oggetti» e in «bisogni». Prendiamo come esempio un concetto sbandierato da qualsiasi forza politica, sia di destra che di sinistra, la sicurezza: esso assume la stessa valenza di un oggetto di consumo come lavastoviglie o automobile perché, come scrive Baudrillard, «nella logica dei segni, come in quella dei simboli, gli oggetti non sono più legati a una funzione o a un bisogno definiti. Precisamente perché essi rispondono a tutt’altra cosa, cioè sia alla logica sociale che a quella del desiderio, a cui essi servono da campo mobile e inconscio di significazione». (J. Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, trad. it. Il Mulino, Bologna, 2010, p. 75). E, continua lo studioso, «il mondo degli oggetti e dei bisogni sarebbe così quello di un’isteria generalizzata» (ibid.). C’è veramente bisogno di un oggetto? C’è veramente bisogno della lavastoviglie, dell’automobile o della sicurezza? La società dei consumi e la società della politica ci rispondono di sì e questa risposta ci fa cadere in un precipizio d’isteria. Quella lavastoviglie, quell’automobile e quella sicurezza, una volta trasformatisi in bisogni e in concetti astratti, divengono indispensabili per il consumatore fino a trasformarsi in vere e proprie necessità assolute, fondamentali per l’esistenza, scisse dalla dimensione reale. Ma in questo gigantesco circo è proprio quella dimensione reale che non dobbiamo mai perdere di vista; altrimenti rischiamo di morire schiacciati da una massa di lavastoviglie, di automobili e di mitra spianati davanti al portone di casa.
Per Codice Rosso, Gioacchino Toni e gvs