Il vampiro, il mostro, il folle: figure dell’altro nell’universalismo occidentale
“…mi piacerebbe molto scrivere la storia dei vinti. È un bel sogno, condiviso da molti: dare finalmente la parola a coloro che sono stati costretti al silenzio dalla storia, dalla violenza della storia, da tutti i sistemi di dominio e di sfruttamento”
Michel Foucault, intervista a Literaturmagazine, 1977
Il vampiro, il mostro, il folle: figure dell’altro nell’universalismo occidentale
La questione dell’“altro” è decisamente una di quelle all’ordine del giorno, anche se spesso sottaciuta o non riconosciuta come tale. Nato come “oggetto” sfruttabile e utilizzabile, spesso anche deprecabile, l’“altro” (una invenzione della modernità, come dimostra Foucault coi suoi mirabili scritti)1 diventa oggi, in tempi di crisi capitalistica, soprattutto un fastidioso ingombro, se non il nemico tout court, un “competitor” da mettere a lato – a meno che non torni ancora utile per qualcosa –, oppure in qualche modo da eliminare direttamente.2
Paolo Lago affronta questo tema in un agile quanto intenso libretto dal titolo Il vampiro, il mostro,il folle: tre incontri con l’altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij, edito nel maggio 2019 dalla casa editrice Clinamen.
A questo proposito, il testo analizza tre importanti film diretti dai registi sopra citati. Per Herzog la scelta cade sul celeberrimo Nosferatu, il principe della notte, per Lynch sull’altrettanto meritoriamente noto The Elephant Man, infine last but not least per Tarkovskij il prescelto è Nostalghia. Tre film che definire capolavori della cosiddetta “settima arte” è semplicemente rendere loro un omaggio dovuto.
Nel film di Herzog, l’“altro”, come si intuisce, viene identificato con il vampiro – nello specifico il vampiro dei vampiri, cioè il mitico Dracula, secondo la leggenda ispirato, sia pur indirettamente, alla figura del ben più temibile Vlad Dracul, detto Tepes (l’impalatore), difensore della patria e acerrimo nemico dei turchi, principe nato e vissuto nelle terre rumene intorno alla metà del XV secolo. Il Dracula di Herzog, tuttavia, e forse anche quello di Stoker, l’autore del famoso romanzo, è di tutt’altra specie. Egli “rappresenta l’alterità assoluta: un essere dalle connotazioni mostruose e demoniche, spinto da una smania di distruzione ma contemporaneamente mosso dal desiderio di partecipare dell’amore che lega tra loro gli esseri umani, amore che gli è inesorabilmente negato”. (Il vampiro, il mostro, il folle – d’ora in poi VMF -, p.13) Questo amore, che lega (o almeno dovrebbe farlo) fra loro gli esseri umani, sembra essere ciò a cui anela il mostro Dracula, e l’impossibilità di raggiungerlo scatena in lui la follia sanguinaria di cui si fa portatore. La società che glielo nega e fa di lui un escluso, sarà l’obbiettivo delle sua volontà distruttiva.
Il film descrive un “viaggio” verso l’altro, verso il diverso. Questo viaggio, tuttavia, non è motivato dal desiderio dell’incontro con l’altro ma, in piena coerenza con lo spirito dei tempi che ha partorito questo concetto “mostruoso” di altro, da esigenze commerciali. D’altronde, lo scenario stesso da cui parte tutta l’operazione ha queste caratteristiche: la linda e onesta cittadina della Germania del nord in cui vive il protagonista, Jonathan Harker, è intrisa di “una logica mercantile e imprenditoriale che sembra regnare in ogni dove”. (VMF, p.18) Tuttavia, forse questo viaggio non sarà così piacevole e sicuro come abitualmente accade. Già dal modo frettoloso e imperativo con cui gli viene assegnato, e considerando la meta dai contorni oscuri a cui è destinato, la Transilvania, il viaggio assume sin da subito connotazioni decisamente perturbanti. La sicumera del viaggiatore occidentale che va in cerca di “terre di conquista”, sia pure solo dal punto di vista commerciale, comincia a vacillare. Un primo incontro con una comunità di zingari, lungo la strada, è un segnale inquietante in questo senso. Gli zingari sono colorati, vivaci, flessuosi, e in realtà l’incontro con loro potrebbe non essere necessariamente “inquietante”. Ma lo è per Harker, che con il suo andamento rigido (fisico, ma anche mentale) prova disagio di fronte a questo spettacolo della vita. In un certo senso, destabilizza il suo senso borghese, ordinato e pulito, ed è spaesante perché già molto diverso da quello a cui è abituato e da quello che si sarebbe aspettato, in base alla sua esperienza di onesto rappresentante commerciale, di incontrare. Infatti, “lo spirito con il quale il personaggio va incontro alla terra incognita della Transilvania è lo stesso di un razionalista inglese del settecento … che, gradatamente, con un atteggiamento di superiorità razionalistica, si sta immettendo in territori sconosciuti e ‘selvaggi’”. (VMF, p.20)
Ma questo spirito viene messo ulteriormente alla prova quando entra nella “locanda”, luogo anch’esso vivo ed estraniante, però in modo diverso rispetto agli zingari. Qui Harker incontra una umanità oscura e più chiusa, venata di irrazionalismo, che lo avvisa dei pericoli a cui va incontro andando a cercare Dracula, e lo scoraggia a proseguire, mettendo addirittura in dubbio l’esistenza stessa del castello del Conte.
Adesso il viaggio assume contorni decisamente inquietanti – sempre, ricordiamolo, per lo spirito mercantile e razionale del viaggiatore che proviene dall’occidente dominatore. Il cammino, che prosegue attraverso un paesaggio aspro e inospitale, contribuisce a consolidare questa sensazione. Esso diventa sempre più “un vero e proprio viaggio nella dimensione dell’orrore: il personaggio osserva quasi con spavento i precipizi, le cascate e l’impetuosità dei torrenti di montagna che lambiscono il sentiero, il quale si inerpica attraverso rocce impervie”. (VMF, p.22)
Anche qui, però, come per l’incontro con gli zingari, lo “spavento” non è certo l’unica reazione possibile. Di fronte al maestoso spettacolo della bellezza della natura, si può reagire in modo ben diverso, sentendosi anzi elevati di fronte a cotanto splendore, e addirittura rasserenati. Ma per il nostro viaggiatore, partito con intenti ben precisi e forte della superiorità della razionalità borghese, questo incontro con qualcosa di inaspettato è fonte di grande inquietudine, e presagio di sventura. Date queste premesse, l’incontro con l’“altro” si preannuncia “terribile”, e così effettivamente sarà.
Dracula appare sin dalle prime battute inquietante, avvolto da una semi-oscurità che sembra far parte di lui, più che dell’ambiente in penombra che lo circonda. La casa stessa sembra esser malata e deforme, persino i cibi delle portate offerte dal vampiro danno questa impressione. Siamo decisamente in uno spazio “altro”, che per il viaggiatore occidentale risulta ostico e difficile da comprendere. La sua razionalità vacilla, e un po’ alla volta viene introdotto, quasi a sua insaputa, in questo mondo dell’“altro”. Infatti, “all’interno della dinamica dell’incontro con l’Altro, vi è spazio anche per l’ibridazione e la contaminazione”. (VMF, p.29) Il famoso “morso sul collo” di Dracula sancirà questo avvicinamento, fino all’identificazione. Sarà infine il vampiro a compiere il “viaggio di ritorno” verso Wismar, la cittadina simbolo del benessere borghese che, ignara, dovrà affrontare quella che potremmo definire una sorta di “vendetta” del temibile “non morto”.
Nonostante una prima reazione di “orrore” di fronte a cotanta violenza, apparentemente gratuita, non è possibile però reprimere del tutto un moto quasi di simpatia, potremmo dire, per il vampiro, il quale attacca qui con decisione un mondo che lo ha escluso e reso reietto e, ricordiamo, “nei cui interstizi si celano comunque crudeltà nascoste e ingiustizie”. (VMF, p.35) Un “tranquillo spazio cittadino” che “genera i mostri della sopraffazione e del cinismo”. (VMF, p.35). In esso “vige la logica borghese e mercantilista del commercio e dell’economia, una logica spietata”. (VMF, p.37)
Per di più, l’arrivo del vampiro nella città, che porta la propria bara sulle spalle, assume talvolta tratti tutt’altro che negativi o tragici. “Egli infatti … è anche portatore di un sovvertimento dell’ordine costituito di tipo carnevalesco e teatrale. La contaminazione della peste, che egli porta con sé, … instaura negli abitanti della città sfrenatezza, anche di tipo sessuale, disinibizione, rifiuto di qualsivoglia regola sociale”. (VMF, pp.35-36)
Il vampiro, “macchina da guerra nomadica” – per usare una terminologia deleuze-guattariana -, porta il suo attacco all’“occidente razionalistico e illuminato”. (VMF, p.40) Lucy, la persona probabilmente più “genuina” e “pura” della cittadina, è forse l’unica testimone lucida di quanto sta avvenendo. Lucida anche perché non ha perso del tutto il contatto con il proprio essere naturale, e non prova quella fede cieca che provano i suoi concittadini per la ragione strumentale e meccanica propria dell’ordine mercantile dominante. Forse l’ultima speranza per una civiltà comunque malata e degenere, non a caso sarà lei, offrendosi al vampiro, a determinarne la fine.
Fine, tuttavia, non definitiva, perché nel frattempo Harker, a sua volta morso dal vampiro, finirà per identificarsi con lui e proseguirne la “missione”. Per riprendere l’esergo di Foucault, il “vinto” questa volta riprende la parola devastando la “civiltà” che lo esclude e fa di lui un reietto.
The Elephant Man, di David Lynch, è il secondo film preso in esame. Qui l’“altro” non è un temibile, vendicativo e indefinito personaggio, ma un uomo dolce e indifeso, John Merrick, che a causa di un incidente, per colpa di un gruppo di elefanti, subito dalla madre quando era incinta di lui, assume sembianze mostruose, che ricordano appunto quelle di un elefante. Il nostro protagonista si trova al servizio di un perfido e inquietante personaggio che gestisce un baraccone da fiera dove lo esibisce come freak, come mostro da spettacolo (e “anche lo spettacolo è controllo, anch’esso è l’altra faccia della razionalità illuministica in cui impera per ogni dove la meccanica geometrica di una tarda Rivoluzione Industriale”, (VMF, p.53) ci ricorda con una certa sagacia Paolo Lago). Qui viene schiavizzato e brutalizzato per il divertissement del popolo, e qui viene scoperto dal dottor Treves, vero e proprio alter-ego dell’orribile gestore del postribolo dove il povero John è costretto ad esibirsi. Nasce quasi sin da subito il sospetto che questi due personaggi, il dottore e lo schiavista, così apparentemente diversi e inconciliabili, siano le facce di una stessa medaglia, a loro stessa insaputa. Il contesto sembra determinarli, così come sembra sancire il destino “mostruoso” dell’“uomo elefante”.
Interessante è anche osservare come quest’ultimo, contrariamente al terribile e ribelle Dracula, sia immediatamente interno a questo contesto, non provenga cioè da fuori e da terre lontane e “perturbanti”, ma sia già presente e, diciamo così, “riconosciuto”, sia pure come mostro. Per riprendere la terminologia di George Simmel, nota Paolo Lago, l’“uomo elefante” è una sorta di “straniero interno”, più domestico e disciplinato rispetto al devastante vampiro che aggredisce senza pietà il mondo che lo esclude. John Merrick rappresenta dunque il “diverso”, l’“altro” che è qui, che abbiamo in casa, e in questo senso una figura molto attuale e quotidiana. L’“altro” che non si ribella e che l’uomo bianco occidentale etc – l’uomo “cartesiano”, potremmo forse dire – usa sfrutta violenta e sbeffeggia più o meno a proprio piacimento.
Come per Dracula, invece, la storia si svolge nel pieno maturare della modernità, quando il lavoro industriale e le macchine cominciano a farla veramente da padrone e tutto ciò che rappresentava la vecchia civiltà contadina e artigiana viene messo da parte. La Londra vittoriana, ovvero lo scenario in cui si svolge tutta la vicenda, è forse la quintessenza di questo nuovo sistema sociale, a cui aggiunge un sovrappiù di moralismo che decisamente ne “perfeziona” gli effetti.3
Il dott.Treves è, a suo modo, anch’egli un “prodotto” di questo sistema sociale nel momento del suo radicamento più profondo. Ne rappresenta la parte “buona” e “misericordiosa”, sia pur senza perdere la propria razionalità omologata e conforme. È colui che piange della sorte miserabile del derelitto costretto a recitare la parte del pagliaccio per persone la maggior parte delle quali, alla fine, soffrono come lui, sia pure in forme diverse, l’oppressione bestiale del mondo che sta prendendo forma. Ma è anche colui che lo conduce all’interno del London Hospital per trasformarlo in un caso clinico. Senza voler essere cinici, il dott.Treves non rappresenta, purtroppo, una vera alternativa a questo mondo, ma il suo versante politically correct, una specie di “welfare” esistenziale che, in fondo, rende questo mondo più accettabile. Treves “è lo sguardo medico che osserva, giudica e separa: il gesto con il quale Treves si accinge a togliere il cappuccio dal volto del mostro assume perciò quasi le valenze di un atto demiurgico, un movimento apportatore di illuministica e razionale conoscenza … L’anormalità, di fronte allo sguardo medico, viene ricondotta alla normalità”. (VMF, p.59) Ma questo “ricondurre” non è un accettare l’altro per come appare, e trovare ricchezza nell’incontro con la sua diversità, bensì tentativo di “addomesticamento” per renderla innocua e integrarla utilmente proprio in quel sistema che, di fatto, l’ha determinata ed esclusa. Il diverso “deve per forza essere ricondotto alla ragione”. (VMF, p.60)
I luoghi per eccellenza deputati a questo “recupero” del diverso alla ragione sono quelli definiti “istituzioni totali”. L’ospedale è quello in cui viene rinchiuso il nostro “anormale”.4 Qui viene “sottoposto allo sguardo ‘medicalizzante’ della medicina, una scienza che incasella e inquadra, che imprigiona in referti e diagnosi. Su di esso si dispiega inoltre la parola del medico, la quale attraversa il corpo del paziente come uno strumento meccanico, come il bisturi del chirurgo”. (VMF, p.66) Qui “l’Altro è chiamato a ‘normalizzare’ la propria vita”. (VMF, p.67) Contrariamente a Nosferatu/Dracula, l’uomo elefante non ha volontà destabilizzante nei confronti dell’ordine costuito, e finisce addirittura per approdare nei buoni salotti della borghesia vittoriana londinese, dove, opportunamente ripulito ed abbigliato, viene benevolmente e filantropicamente accolto da raffinate ed eleganti élite. Ma “nonostante gli abiti eleganti, l’Altro resta comunque il diverso che appare inequivocabilmente estraneo agli ovattati interni borghesi, consacrati all’ordine, al silenzio e al lucido rispetto di norme non scritte. Egli è corpo animalesco che arranca nello spazio borghese…”. (VMF, p.67) In definitiva, John Merrick può essere accettato “soltanto all’interno di una dimensione finta, ‘teatrale’, mascherata”. (VMF, p.69) L’uomo elefante continua ad essere uno “straniero interno”, e non potrebbe essere diversamente, poiché il contesto che ora sembra “accoglierlo” non è cambiato di una virgola e i “figuranti” di questa farsa sono ancora una volta le “maschere di carattere” di quel mondo orribile e criminale così ben descritto da Marx.
Saranno piuttosto gli altri freaks, i dileggiati ed esclusi come lui, a dimostrarsi veramente solidali con John Merrick quando viene rapito dal precedente aguzzino e riportato nel circo. Gli altri “mostri”, suoi compagni nella cattiva sorte, lo libereranno e con lui proveranno a partire verso un “altrove”, purtroppo inesistente. Rimasto di nuovo solo, e ancora una volta perseguitato e deriso dalla gente, ritroverà asilo presso la borghesia illuminata, che già una volta lo aveva accolto – o forse sarebbe più giusto dire “raccolto” – e che lo riporterà di nuovo all’interno di una dimensione teatrale. La fine tragica e insieme triste dell’uomo elefante sarà il modo in cui questo “vinto” riprenderà la parola, sottraendosi ad un mondo al quale non appartiene e rispetto al quale mantiene una irriducibile diversità.
Infine, il terzo film oggetto della disamina, Nostalghia di Andrej Tarkovskij, ci mostra un “altro” di diverso tipo, in qualche modo però complementare agli altri due. Qui il protagonista, insieme allo scrittore e poeta russo Andrej Gorčakov, è il “folle” Domenico. I due personaggi spesso quasi si confondono, entrambi estranei nel proprio mondo, entrambi “esiliati”, entrambi – potremmo dire – “nostalgici”.
Entra qui in gioco quello che può essere definito il “diverso” paradigmatico, l’“altro” per eccellenza: il folle, il portatore di “insanità” rispetto al normale incedere degli eventi, il “destabilizzatore” di abitudini e certezze. Il ruolo di questa figura (e della sua “malattia”, la follia) è difficilmente sovrastimabile per la storia della letteratura come della filosofia.5
Il folle è colui (o colei) che, con la sua sola presenza, rappresenta la possibilità di un “altro” (mondo, modo di vivere, pensiero, sguardo, discorso…). Il (o la) folle gioca contro l’univocità, spezza il dominio della “normalità” e la costringe, in un certo senso, a guardarsi allo specchio. Il (o la) folle è il dolore e la gioia, l’avvilimento e l’entusiasmo che i “normali” non sanno più provare. È colui (o colei) che osa, che sfida, che vede oltre la cortina di fumo e indica una strada. Che “sragiona” a fronte di una Ragione che si pretende illuminata e normativa.6
Nel film in esame, il folle è, come detto, Domenico, un paesano che vive in Toscana, precisamente a Bagno Vignoni, luogo incantevole e onirico al tempo stesso. Qui si trasferisce anche Gorčakov, il poeta nostalgico (della sua patria, ma anche di un sogno di umanità che sembra svanire come i vapori della piscina termale di Bagno Vignoni).
L’incontro fra i due avviene proprio in prossimità di questa piscina, nella piazza centrale del paese. A fare da contrappunto ai due “oscuri” personaggi, c’è Eugenia, una bella e solare ragazza arrivata con Gorčakov, traduttrice italiana del poeta, personaggio di sapore quasi rinascimentale, “donna razionale, pratica, legata alla realtà concreta e tangibile”,(VMF, p.90) figura “corporale” e ben definita, che contrasta con le nature “nebbiose” e incerte dei due protagonisti. Persino il tono della voce distingue la dimensione “vitale” di Eugenia da quella che potremmo quasi definire “tragica” del “vinto” Domenico. Nel chiacchiericcio che la trova impegnata con alcune persone che stanno facendo il bagno nella grande vasca della piazza, si erge la voce “sacrale” e forse disperata del folle Domenico, che spezza la vuota vaghezza del momento e vorrebbe richiamare i presenti ad una maggiore attenzione verso la spiritualità.7
Entrambi, Domenico e Gorčakov, sono dunque due esiliati, il primo in patria – uscito da poco dal manicomio grazie alla legge Basaglia – il secondo fuori patria. Domenico, l’“asociale” per eccellenza, e il poeta russo, anch’esso a suo modo asociale, vengono percepiti dagli altri come “estranei”, e questo li avvicina e affratella, rendendoli quasi la stessa persona. Ma entrambi ambiscono in realtà ad una unità più profonda, di tipo spirituale e più vicina all’essere umano. Paradigmatica è la scena in cui Domenico versa due gocce di olio in un piatto e afferma che “una goccia più una goccia fanno una goccia più grande, non due”. La sua volontà di lottare contro la “logica della segregazione e della separazione, la stessa che lo ha internato, la stessa che lo ha costretto a diventare un asociale”, (VMF, p.97) si materializza, simbolicamente, nel desiderio di attraversare la vasca di Bagno Vignoni, unendo le due sponde con una candela accesa in mano, con un “fuoco” che, quasi in modo eracliteo, annunci una nuova vita e che squarci le “tenebre” della normalità così come il suo passaggio vorrebbe squarciare l’“immobilità” dell’acqua della piscina. Ma questo non sarà possibile per Domenico, sempre fermato da quella “normalità” che per di più lo fa perché, paradossalmente, vuole pure prendersi cura di lui, ma lo sarà infine per Gorčakov che, portando a compimento il sogno dell’“amico pazzo” porterà a compimento anche l’“identificazione” con lui assumendone lucidamente le istanze.
La “voce” di Domenico, tuttavia, non resterà muta, e si farà nuovamente sentire in un disperato gesto finale quando, recatosi a Roma, improvvisa un comizio nella centrale piazza del Campidoglio dove, di fronte a un pubblico di “matti” come lui, arringa la folla contro la presunta “sanità” del mondo normale, per poi alla fine darsi fuoco e portare a termine la sua vita nel modo, forse, ad essa più consono.8 In questa occasione “Domenico grida al mondo la necessità di una unione fra i ‘cosiddetti sani’ e i ‘cosiddetti ammalati’, definizioni create da indeterminate logiche di potere. Che cosa sia la salute e che cosa sia la malattia è difficile, se non impossibile, da stabilire: l’unica cosa certa è che il mondo è stato ‘portato sull’orlo della catastrofe’”. (VMF, p.111)
I “vinti” (gli “altri”) riprendono dunque in questi film e nell’esegesi che ne fa Paolo Lago, ognuno a loro modo, la parola. Ma, fuor di metafora e al di là di ogni suggestione letteraria, è bene qui aggiungere una importante glossa, che Foucault stesso ci aiuta a mettere a fuoco. Nella stessa intervista posta in esergo, dove parla del sogno di ridare la parola ai sottomessi, ai vinti, agli sconfitti etc., subito dopo aggiunge, problematizzando la questione:
“Innanzitutto i vinti … sono per definizione coloro a cui è stata tolta la parola! E se, ciò nonostante, essi parlassero, non parlerebbero la loro lingua. A loro è stata imposta una lingua straniera. Essi non sono muti. Non parlano [però] una lingua cui non si sarebbe dato ascolto e che ora ci si sentirebbe obbligati ad ascoltare. Proprio perché sono stati sottoposti ad un dominio, ad essi sono stati imposti una lingua e dei concetti. E le idee che in tal modo sono state loro imposte, sono le cicatrici dell’oppressione alla quale sono stati sottomessi. Cicatrici, tracce che hanno permeato il loro pensiero. Direi persino che hanno permeato le loro attitudini corporee. È mai esistita la lingua dei vinti?”.9
Un problema non di poco conto, che richiama quello dell’immaginario e della capacità di pensare (e “progettare”) un mondo altro dove non solo l’“altro” (i “vinti” nel senso foucaltiano) ritrovi spazio e dignità, ma dove proprio sia impossibile l’emersione di un concetto che separa e classifica tra ciò che viene prima e ciò che viene dopo, fra il “soggetto” dominatore e l’“altro” da esso, fra primo e secondo o terzo mondo, fra “normale” e “anormale” e via dicendo. Un compito non da poco, che presuppone una critica molto profonda all’intero assetto sociale e ai suoi paradigmi fondanti, sia in senso materiale che psicologico e culturale. Un compito però non più rimandabile, affinché sia possibile uscire dalla concezione di “altro” come estraneo, non però in favore di una piatta uniformità, ma verso la liberazione della ricchezza delle diversità. Il libro di Paolo Lago ci aiuta, in questo senso, a penetrarne alcuni aspetti decisivi e a tonificare il nostro esangue immaginario.
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Note:
1. Il pensiero di Foucault mette in evidenza come il concetto di “altro” nasca in un ben preciso momento storico, quello che possiamo definire “modernità” e che Foucault stesso, attraverso la sua particolare periodizzazione, chiama “epoca classica”. Molti suoi libri ne descrivono la genesi e le variazioni, così come molti dei suoi famosi corsi al Collège de France. Per esempio, Storia della follia nell’età classica, dove descrive la nascita della figura del “folle” moderno, o Nascita della clinica, dove parla delle istituzioni atte a “contenerlo” e della nascita del nuovo e determinante potere medicale, forza dirompente della modernità – come proprio il nostro momento storico ci sta mostrando con grande chiarezza. Oppure, per passare ai famosi corsi sopra descritti, La società punitiva, dove Foucault tratteggia abilmente la nascita del proletariato e del “lavoratore” moderno (sempre che ve ne sia mai stato un altro così definibile in epoche precedenti), e delle istituzioni ad essi connesse, come elementi necessari affinché il nuovo sistema possa radicarsi e prosperare. Tutte figure, potremmo dire, dell’“altro”. Un secondo autore, ma non per importanza, che forse sarebbe il caso di menzionare in questo contesto è Heidegger, punto di riferimento rilevante anche per lo stesso Foucault. Heidegger sottolinea come la modernità possa dirsi avviata una volta che il soggetto “uomo” diventa l’asse portante dell’essere. Questo filosoficamente avviene con l’Umanesimo e il Rinascimento italiani, ma prende forma definita solo con Cartesio e il suo “dubbio filosofico”, che si risolve – quasi con una dimostrazione di tipo matematico – nell’Ego del Cogito ergo sum. Questo passaggio “filosofico” non casualmente coincide, dal punto di vista storiografico, con la nascita e l’imporsi del capitalismo, allora certo solo in nuce e agli albori. Con il soggetto “uomo” a fondamento del tutto – uomo che, anche qui non a caso, finisce per coincidere con il genere maschio bianco europeo – nasce anche l’“altro” rispetto a questa figura dominante, “altro” che diventa oggetto rispetto al soggetto sopra descritto, con tutte le conseguenze del caso. La strada per la dominazione senza vincoli è aperta, e il tipo di struttura sociale che ne esce è quella stessa entro la quale ci troviamo e stiamo vivendo ancora oggi tutti noi. A titolo di “chiarimento” valgano questi passaggi, scritti nel tipico linguaggio heideggeriano, tratti da una lunga annotazione che Heidegger fa a margine del saggio L’epoca dell’immagine del mondo: “… Il predominio di un particolare sub-jectum (come fondamento di ciò che è fondamentale), la cui particolarità sta nell’essere sub-jectum in modo essenzialmente incondizionato, deriva dalla pretesa umana a un fundamentum inconsussum veritatis (di un fondamento autonomo e indubitabile della verità intesa come certezza) … Ora, ciò che è certo in base a se stesso deve nel contempo garantire come certo quell’ente per cui questo sapere è certo e mediante cui ogni scibile deve essere assicurato … Che cos’è questo alcunché di certo che produce e conferisce il fondamento? L’ego cogito (ergo) sum … Questo assicurarsi è necessariamente un calcolare, perché solo il calcolo garantisce anticipatamente e costantemente la possibilità dell’esser certo di ciò che deve essere rappresentato … Il rappresentare non è più un ‘dischiudersi per …’, ma un afferrare e un comprendere. Non è più il regno dell’essente-presente, ma il territorio dell’aggressione … L’ente non è più l’essente-presente, ma ciò che la rappresentazione contrappone a sé, è l’‘oggetto’. Il rappresentare sospinge tutto nell’unità dell’oggettivato … Niente può sottrarsi a questa oggettivazione rappresentativa, che è anche una decisione circa ciò che può valere come oggetto. Dell’essere della soggettività del subjectum, e dell’uomo come soggetto, fa parte l’illimitatezza incondizionata del dominio di possibili oggettivazioni rappresentative e del diritto di decidere intorno ad esse … Qui l’uomo non è più mètron nel senso della moderazione che si limita alla percezione della mutevole cerchia del non-esser-nascosto dell’essente-presente, rispetto al quale ogni uomo è di volta in volta essente presente … [ora] L’uomo fonda se stesso come criterio di ogni misura con cui viene misurato e commisurato (calcolato) ciò che deve valere come certo, cioè come vero, cioè come essente … Nell’imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato, il soggettivismo dell’uomo raggiunge quel culmine da cui l’uomo non scenderà che per adagiarsi sul piano della uniformità organizzata e per installarsi in essa. Questa uniformità è infatti lo strumento più sicuro del dominio completo, cioè tecnico, della Terra”. (in Sentieri interrotti, la Nuova Italia, 1984, pp.94-97)
2. Per amor di chiarezza, è bene dire che ci sono altri modi di concepire la questione dell’“altro”. Alcuni più filosofici, che per esempio tematizzano l’“altro” come la morte la quale, non riconosciuta come tale, o volutamente rimossa (per paura o che altro), si ripresenta (in quanto non definitivamente eliminabile – ovviamente) come ciò che è “altro” per eccellenza, inconoscibile e temibile. Il suo riconoscimento e il coraggio di “voltarsi” verso di essa costituirebbero il presupposto fondamentale dell’essere pienamente umani e, paradossalmente, pienamente vivi. È un po’ la tematica dell’essere-per-la-morte heideggeriano, rintracciabile anche in saggi apparentemente lontani da quella come, per esempio, in Perché i poeti, presente anch’esso in Sentieri interrotti, dove Heidegger, interpretando Rilke, sottolinea l’importanza del rapportarsi con “l’altro Bezug” – cioè l’altro riferimento, l’altro rapporto, essenziale per l’“esserci”. Ma non dobbiamo dimenticare anche l’altro nella psicologia e nella psicanalisi (per esempio, l’“ombra” di Jung, o il “doppio” di Rank). Oppure, il tema affine sempre del “doppio” ma nella letteratura. Tuttavia, ci sembra di scorgere una radice comune a tutti questi modi di intendere il concetto di “altro”, che probabilmente andrebbe cercato nel movimento di separazione tra umano e mondo o, con altri linguaggi, tra umano e essere, tra umano e natura o fra umano e bellezza. Sarebbe come dire, in altre parole, fra umano e se stesso, fra umano e ciò che gli è più proprio. Una scissione che rende l’uomo schizofrenico e alienato, con le conseguenze catastrofiche che ne derivano. Una questione che non può certo essere approfondita qui ma per la quale occorrerebbe un saggio a parte. Merita comunque sicuramente un cenno veloce la lettura che di questo movimento di separazione dà Leonardo Amoroso disquisendo di estetica (questi temi sono sviluppati soprattutto nel bel libro L’estetica come problema, ed.ETS, 1988). L’uomo, nel suo percorso folle di “svincolamento” dall’essere, espelle letteralmente tutta una serie di caratteristiche (la sensibilità, la sensualità, i sentimenti…) relegandole a “verità” di infima categoria, che non incidono nelle decisioni “importanti” di una umanità ora presunta “matura” e alle prese con problemi ben più seri, come per esempio far tornare i conti dell’epopea capitalistica o pianificare la prossima guerra al mondo. Ma l’umano dell’essere umano, così come la morte, non si può mettere da parte con tanta facilità. La “vita”, espulsa dalla porta, in qualche modo rientra dalla finestra, ed ecco nascere un ambito, l’estetica, che serve proprio a contenerla e a renderla docile e funzionale per questa umanità in ben più serie faccende affaccendata. In questo ambito è l’estetica ad assumere le fattezze dell’“altro”, reso qui accettabile e spesso anzi adorabile – purché non oltrepassi i limiti assegnati. La “rinascita” dunque prevederebbe la fine dell’estetica e il ritorno del bello e dell’“arte” nel mondo, un passaggio molto diverso e non così indolore, per l’attuale stato delle cose, rispetto al più rassicurante “godimento estetico”. Infine, non possiamo dimenticare – sempre per restare alle “figure” dell’altro – la lettura di Roswitha Scholz e Robert Kurz, e più in generale del gruppo Krisis, sulla “dissociazione sessuale” dove, nella modernità, è la “donna” ad assumere questa volta il ruolo dell’“altro” per eccellenza (qui anche Silvia Federici. Cf., per esempio, https://anatradivaucanson.it/recensioni/laccumulazione-e-la-donna-storie-di-genere-e-di-oppressione-una-lettura-di-calibano-e-la-strega-di-silvia-federici). Per tornare alla presente recensione, la scelta, dunque, è caduta sull’interpretazione foucaultiana, che fa da filtro, credo coerentemente, con la lettura che Paolo Lago dà delle figure dell’“altro” nel cinema dei tre autori oggetto della sua disamina.
3. Descritti con grande efficacia e pathos da Marx nel famoso cap.24 del primo libro de Il Capitale, dall’eloquente titolo La cosiddetta accumulazione originaria. Qui Marx analizza il processo di insediamento del nuovo sistema sociale soprattutto dal punto di vista delle conseguenze per le popolazioni costrette a subirne l’avanzata e la “legislazione sanguinaria”. Il necessario disciplinamento delle popolazioni, ora “masse”, aveva sì bisogno di imporsi con la forza bruta e la violenza, ma anche con la moralizzazione e il self-control. Con la Londra vittoriana si raggiunge, per così dire, la “quadratura del cerchio” capitalistica.
4. Può essere interessante e utile riportare qui un breve passo tratto dalla Storia della follia nell’età classica, dove Foucault, partendo da un esempio francese, delinea i tratti della nascita di questa istituzione che così tanta importanza ha avuto per il sorgere della modernità: “L’Hôpital général non è una istituzione medica. È piuttosto una struttura semigiuridica, una specie di entità amministrativa che, accanto ai poteri già costituiti, e al di fuori dei tribunali, decide, giudica ed esegue … Sovranità quasi assoluta, giurisdizione senza appello, diritto esecutivo contro il quale niente può prevalere: l’Hôpital général è uno strano potere che il re crea tra la politica e la giustizia, ai limite della legge: il terzo stato della repressione”. (Storia della follia nell’età classica, ed.BUR, 1992, p.55) Anche se gli Hôpital général sono nati soprattutto per risolvere i problemi causati dalla rivoluzione industriale, e quindi in qualche modo internare e togliere dalla strada l’esercito di poveri che inondava le contrade degli esordi della modernità, l’ospedale moderno è comunque un pronipote di questo archetipo, e ne mantiene alcuni tratti essenziali.
5. Dalla Manìa del Fedro di Platone all’Elogio della follia di Erasmo, a Nietzsche, Hölderlin, Artaud, Laing, fino allo stesso Foucault, e nella letteratura Orlando, Don Chischiotte, … fino ad arrivare, se mi è permesso, allo scoppio di bellezza e di “follia” del ‘77, annus horribilis per la normalità e per tutti i devoti a questa orrida religione – ma annus mirabilis per chi ha ancora a cuore la liberazione e l’“esplosione” della vita in tutte le sue incredibili e fantastiche forme.
6. Può essere utile, qui, la lettura del testo di Robert Kurz Ragione sanguinaria, ed.Mimesis, 2014, uno “spietato” e lucido j’accuse nei confronti della ragione illuministica e suoi epigoni.
7. Questo momento richiama in qualche modo il famoso passo 125 de La Gaia Scienza di Nietszche, dal significativo titolo L’uomo folle. Qui un uomo dai più ritenuto pazzo si avventa fra la folla al mercato gridando che “cerca Dio”. Deriso dalla folla, il “pazzo” la accusa di essere autrice, forse inconsapevole, dell’assassinio di Dio, ovvero di ciò che vi è più alto e più degno per gli esseri umani, e di non rendersi conto della tragicità del fatto – e anche del difficile compito futuro che questo evento arreca. Di fronte alla reazione indifferente e infastidita della gente, si tira indietro accusandosi di essere arrivato troppo presto, e comincia a percorrere le varie chiese dichiarandole, ormai, “tombe di Dio”. Domenico sembra qui intepretare, in qualche modo, lo stesso ruolo, e la reazione avversa che incontra lo porterà ad un gesto ben più tragico di quello dell’uomo folle dell’aforisma nietzschiano. A mo’ di glossa, può essere interessante (e intrigante) un commento heideggeriano a Nietzsche, commento che sembra esser tutto sommato insignificante e di passaggio per l’economia del discorso ma che, invece, dice forse l’essenziale – come spesso accade, come afferma lo stesso Heidegger altrove. Nella raccolta di saggi Denkenerfahrungen dice Heidegger: “non dimentichiamoci troppo presto la parola di Nietzsche, dell’anno 1886: ‘la confutazione di Dio – propriamente viene confutato solo il Dio moralistico’. Questo dice, per il pensiero che medita: il Dio pensato come Valore, sia esso il più alto, non è Dio. Dunque, Dio non è morto. Perché la sua deità vive”. (Denkenerfahrungen, Vittorio Klostermann Verlag, 1983) In altre parole, il “Dio” a cui pensano Nietzsche, Heidegger e, forse, Domenico/Tarkovskij, non è quello temibile, opprimente e punitivo tramandato da determinate letture dell’antico Testamento, ma un Dio ben diverso che, potremmo dire, sembra necessitare di una umanità libera e matura, emancipata, al tempo stesso capace di sostenere l’“insostenibile leggerezza dell’essere” e anche di ridere (e sorridere) di se stessa – per restare a Nietzsche.
8. Cf. https://www.youtube.com/watch?v=yLZYVXG0YkU&feature=youtu.be
9. Michel Foucault, Biopolitica e liberalismo, ed. Medusa, 2001, p.95