Recensioni

L’elegante protesta di Ezio Sinigaglia

La struttura di Sillabario all’incontrario (TerraRossa, Bari-Alberobello, 2023) è, come avverte lo stesso autore nella Prefazione, quella classica del romanzo giallo: un’indagine che, partendo dagli indizi ovvero dai sintomi, dovrebbe risalire all’origine del male o disagio psichico del Narratore e svelarne la causa, in un percorso à rebours che si lega a una serie di parole-chiave, dalla Z di “Zoo” alla A di “Aldilà”. È lo stesso schema adottato dalla cura psicanalitica, e di fatto la voce F (non poteva che essere la F di “Freud”!) si dipana come una seduta di (auto)analisi tecnicamente inappuntabile, a partire da un lapsus (“i lapsus sono loschi per definizione”), e cioè dal nome di Auguste Dupin, il detective creato da Edgar Allan Poe, riemerso dalle letture dei romanzi gialli di cui già nell’infanzia il Narratore s’innamorò; un affioramento, Dupin, avvenuto in modo incongruo, e dunque sospetto, fra i ben più noti ma non assimilabili (e meno amati dall’autore) Hercule Poirot e Sherlock Holmes.

La passione dichiarata dal Narratore per ogni genere di giallo (dal colore al genere letterario) gli ispira folgoranti riflessioni, come questa: “La letteratura gialla è, o può diventare, una delle armi più sottili escogitate dall’uomo per carpire alla vita almeno un’ombra del suo segreto”, e dichiara esplicitamente il legame fra i romanzi polizieschi e la ricerca condotta in questo Sillabario. Legame che si rafforza alla luce della breve godibilissima analisi critica di Maigret, dal Narratore assai ammirato per la capacità di cogliere, al fondo del delitto, “una sorta di squallore abissale e universale che informa di sé ogni ambiente, che si può respirare nell’aria di ogni interno come un odor di cavolo”. Sebbene la struttura del romanzo giallo sia, fra tutti i generi narrativi, quella più impostata, il racconto che Sinigaglia fa della sua quête non è lineare, né e tantomeno razionale, e del resto non sarebbe confacente all’indagine psichica che l’opera si propone di compiere; perciò preferisco parlarne come di una partitura, composta da 21 variazioni su tema (in questo caso i temi sono costituiti dalle 21 parole-chiave), che sovvertono la struttura e rendono impossibile collocare l’opera in una precisa categoria narrativa. A prima vista si può avere l’impressione che il deambulare di Sinigaglia sia fatto di moti sconnessi e porti alla luce nient’altro che frammenti irrelati; eppure la sua ricerca interiore definisce a poco a poco un’immagine, un’identità, un mondo: come nel celebre apologo di Karen Blixen, la corsa notturna, affannosa e scombinata, del contadino africano rivela, alla luce del giorno, d’aver disegnato in terra la sagoma di una cicogna.

Nella Prefazione l’autore enuncia l’intento della sua ricerca: è uno dei numerosi gesti di cortesia verso il lettore, un gentile aiuto per sbrogliare la matassa intricata della narrazione che procede in modi sincopati, fra andate e ritorni, deviazioni, rimandi, divagazioni, incongruità, nascondimenti, improvvise apparizioni, tutte modalità di rappresentazione che mimano il comportamento dell’effettiva protagonista di questa storia: la memoria. Certo non quella lineare e razionale, quella “traboccante dal mobilio”, cioè conservata dagli oggetti e riordinata dalla ragione, che il Narratore giudica superficiale, noiosa, inutile; ma piuttosto la memoria che scocca dalle dimensioni meno manovrabili e condizionabili del pensiero e della psiche, l’unica che serve a capire e che, per la sua natura involontaria, imprevedibile, anarchica, impedisce al percorso del Sillabario di diventare un’esibizione narcisistica, sebbene si riferisca ininterrottamente al sé dell’autore. Il quale non chiede a chi lo legge di trasformarsi in un recettore passivo, né tantomeno pretende la sua ammirazione, magari accompagnata da spavento per qualche imprevedibile rivelazione, né lo aggredisce con provocazioni o spaesanti colpi di scena; lo tratta anzi con estrema gentilezza e quand’è possibile gli spiana la strada, consapevole che il percorso non è facile da affrontare.

Tanto per incominciare, in tutto il racconto è sparsa una quantità smisurata d’intelligenza di altissimo livello, accompagnata sempre da modi ironici e da una lingua supremamente elegante e dotata di un ritmo musicale che sovverte stili e tradizioni e alleggerisce i drammi con divina grazia mozartiana. Il che non significa che il Narratore rinunci a esprimere il suo punto di vista sul mondo, le ideologie, i luoghi comuni o a difendere un’identità di sé diversa dalla norma e scelte esistenziali controcorrente e disagevoli da sostenere; anzi, dalla dissonanza tra levità formale e radicalismo delle contestazioni, queste ultime ne escono rafforzate e più smaglianti.

È il caso, per fare qualche esempio, della voce “Inedito”: l’opinione comune associa tale parola all’insuccesso dello scrittore, nel senso sia di mancata gratificazione narcisista sia di mancato riconoscimento sociale; una convinzione sprezzante della quale il paragone comico dimostra l’evidente stupidità: “un cinquantenne d’insuccesso, nella società di oggi, suscita gli stessi sentimenti di pietà che, nella società di ieri, suscitava una cinquantenne nubile: la si compiangeva in quanto zitella, eventualmente anche senza conoscerla, come se il suo stato civile fosse una certificazione d’infelicità ufficiale, che rendeva superflua ogni ulteriore indagine”. Oppure prendiamo il “disprezzo tenace” che il Narratore nutre per tutti i ruoli, giudicati “una delle vie maestre che conducono alla meta dell’infelicità ottusa e allibita della specie”; in particolare viene analizzato il ruolo sociale forse più celebrato, la paternità. Ai luoghi comuni che la osannano il Narratore si contrappone attribuendo alla paternità, come uniche qualità positive, quelle che di solito si riconoscono alla maternità e che consistono nella capacità affettiva assoluta di “essere per un altro”: questa è l’unica eredità da trasmettere a un figlio, come “ombra di sopravvivenza, o traccia per quanto tenue e leggera del passaggio”. Perciò la voce “Padre” ospita una durissima contestazione dell’esaltato valore dei legami di sangue: “Del sangue, me ne faccio un baffo: pura retorica: è l’oro dei razzisti, il sangue: per difendere il proprio, si versano fiumi dell’altrui”.

Sarei tentata di fare di questa recensione un collage di citazioni, sarebbe una ricognizione smagliante ma si perderebbe lo straordinario ritmo della scrittura di Sinigaglia: che è divertente senza perdere di profondità, intelligente senza perdere di eleganza, dotata di una musicalità che appare sorgiva, polla limpidissima d’incanto.

Concetta D’Angeli

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