Visioni

“Perfect days”: erranze urbane di musica e di sguardo

Come molti altri film di Wim Wenders, anche Perfect days (2023) è costruito sull’impianto narrativo del viaggio, del movimento continuo. Un movimento che è principalmente un modo per interpretare la realtà perché quest’ultima – sembra voler ribadire il regista tedesco – non può essere compresa stando fermi; per comprenderla al meglio occorre spostarsi continuamente in un percorso nomadico, perdendosi anche in vertiginose erranze. Hirayama, il protagonista della storia, si sposta continuamente attraverso le strade di Tokyo delimitando una propria ‘mappatura’ ideale dello spazio. Egli infatti percorre ogni giorno sempre le stesse strade, sia per recarsi al lavoro con la sua auto, sia nei momenti liberi in bicicletta. Il personaggio offre una sua peculiarissima interpretazione dello spazio attraversato, distendendo su di esso quasi un’aura pacificatrice al pari degli angeli di Il cielo sopra Berlino (1987). Solcando le strade e gli ambienti, Hirayama sembra interpretarli e leggerli sempre in un modo diverso che pure si ripete in un’eterna somiglianza: le luci e le chiome degli alberi al parco, che il personaggio fotografa con un vecchio apparecchio analogico, senza porre il suo occhio dietro l’obiettivo in modo che la foto sia casuale, come le immagini che il regista Friedrich cerca per il suo film in Lisbon story (1995); i percorsi urbani; i locali nei quali mangia abitualmente; i bagni pubblici dove si reca ogni giorno per lavarsi; la libreria dove ama comprare qualche vecchio libro di cui è vorace lettore. Muovendosi, Hirayama distende il suo sguardo di pace e di contemplazione sullo spazio urbano.

Come già accennato, lo spostamento avviene spesso in automobile: dal parabrezza e dai vetri il personaggio osserva lo spazio esterno e, insieme a lui, anche noi spettatori. La realtà osservata si carica di un ulteriore significato grazie alla musica che Hirayama ascolta in auto mentre attraversa la città. A commentare le immagini di Tokyo sono canzoni rock degli anni sessanta e settanta e giungono dall’abitacolo dell’auto del personaggio. Il movimento, perciò, si trasforma in sguardo e si trasforma in musica e, grazie a quest’ultima, anche lo spazio esterno subisce una significativa metamorfosi. Non si tratta più della realtà pura e semplice ma della realtà letta attraverso la musica. Si può ricordare che anche in altri precedenti film di Wenders – ad esempio nel già ricordato Lisbon story e in Alice nelle città (1974) – il protagonista della storia si sposta continuamente in automobile in un vero e proprio viaggio offrendoci una lettura dello spazio filtrata dalla musica che egli ascolta all’interno dell’abitacolo. Hirayama sembra prediligere spazi liminali, dove non vi è nulla di definito: non è un caso che uno dei suoi luoghi prediletti per cenare sia una tavola calda situata in una via d’accesso alla stazione, attraversata incessantemente da passanti e viaggiatori. Errando per lo spazio urbano può capitare anche che non lo si riconosca più perché esso è sottoposto ad un inevitabile processo di mutamento. Così, Hirayama incontra un anziano che non ricorda più cosa c’era in un luogo della città prima che venissero costruiti nuovi edifici, nello stesso modo in cui l’anziano poeta Homer, in Il cielo sopra Berlino, non riconosce più i luoghi in cui si trovava Postdamer Platz, ormai devastati dalla guerra.

Il film dispiega una molteplicità di spazi, rigidamente separati ma messi in correlazione fra di loro: la casa del protagonista, semplice e povera ma rappresentata come un tempio sacro; gli spazi angusti dei bagni pubblici, ‘sacralizzati’ dai gesti rituali di Hirayama; i parchi e le aree verdi della città; i locali dove egli consuma i suoi pasti, uno, come già osservato, inserito nello spazio liminale di una stazione, un altro invece più intimo e raccolto; i bagni pubblici dove si consuma il quotidiano lavacro rituale; gli interni dell’automobile dai quali erompe la musica che ‘interpreta’ per noi spettatori le strade di Tokyo. Una musica che appare ben lontana dalle algide riproduzioni digitali: Hirayama ascolta rigorosamente musicassette (ormai considerate alla stregua di pezzi d’antiquariato da tutti ma dai giapponesi – sembra – in particolare) e avvertiamo nitidamente il suono ‘sporco’ e caldo del nastro. Perfect days ci è sembrato un film tutto da guardare e da ascoltare; un’opera cinematografica in cui musica e immagini formano un binomio davvero inscindibile.

Il protagonista vive in un mondo dentro il mondo, inserito nella macina lancinante della quotidianità. Eppure, l’angoscia della ripetitività quotidiana non è nemmeno lontanamente sfiorata dal suo sguardo: nonostante le immagini del film ci mostrino pressoché incessantemente le stesse situazioni quotidiane, non ci stancheremmo mai di osservare il peregrinare del personaggio attraverso la città. Svolge il suo lavoro di pulizia delle toilette dei parchi cittadini del quartiere Shibuya (lo stesso che vediamo distopicamente rappresentato nella serie TV Alice in Borderland) come se compisse un sacro rituale: pulisce le toilette di Tokyo, ma non si pone nemmeno il problema se questo sia degradante o gratificante. Sembra affetto da un autismo nei limiti della ‘normalità’; non parla se non in situazioni di emergenza; non discorre con nessuno; non ha amici – e questo è fondamentale – a parte gli amici alberi – le cui forme egli cattura in foto e che compaiono anche nei suoi sogni notturni – e il sole a cui dare il primo sorriso la mattina, come fanno gli amici alberi. La vita di quest’uomo è bella e vivida come lo sono le immagini dei sogni che ha durante la notte. Nei sogni compaiono delle forme, a volte definite, a volte indefinite, ma sempre serene e inneggianti alla vita. Il sorriso del protagonista non scompare quasi mai e anche quando pulisce i bagni lo fa come se lucidasse dell’argento, e questa cosa ha dell’incredibile. Per inciso, non ci sono mai immagini di pulizia degli escrementi umani e nemmeno si vede ombra di essi. Questo è dovuto probabilmente al fatto che egli non li percepisce come escrementi e come cose schifose. Non si tratta certo dei bagni degli autogrill, eppure sono sempre bagni molto frequentati. Forse, come già accennato, una sorta di leggero autismo oppure un estremo amore per la vita creano questi fatti quasi impossibili. Chissà, forse anche Hirayama è un “ex angelo” come Peter Falk in Il cielo sopra Berlino: sembra che riesca a captare i risvolti più insondabili nascosti nella banalità quotidiana. Probabilmente, come afferma la nipote Niko che va a fargli visita, vive per davvero “in un’altra dimensione”.

Per Codice Rosso, AS Jane e Guy van Stratten