Quando il bar è una “riserva d’immaginazione”
“Ho trascorso ore deliziose nei bar”, scrive Luis Buñuel nella sua autobiografia intitolata Dei miei sospiri estremi. E, poco dopo, continua: “Il bar è per me un luogo di meditazione e raccoglimento, senza il quale la vita è inconcepibile”. Secondo il regista spagnolo, rispetto al caffè, il bar “è invece un esercizio di solitudine”. Fatte queste premesse, Buñuel ci offre una meravigliosa descrizione dei suoi bar preferiti in diverse città del mondo, da Parigi a New York, da Città del Messico a Madrid. Insomma, leggendo queste pagine sorge un po’ spontaneo il sospetto che i bar siano una sorta di territorio ‘altro’, separato dal normale contesto quotidiano. Chissà se si potrebbero includere all’interno della classificazione delle “eterotopie”, cioè gli spazi altri, fornita da Michel Foucault: eterotopie sono – secondo lo studioso francese – ad esempio le scuole, i teatri, i cinema, i giardini. Foucault conclude il suo intervento affermando che le “eterotopie per eccellenza” sono le navi, le quali si configurano come una vera e propria “riserva di immaginazione”.
Ebbene, dopo aver letto il bel libro di Luca Falorni, Abituali. 21 (più uno) racconti da bar, quel sospetto si fa convinzione: i bar sono delle eterotopie, dei luoghi separati dal resto della quotidianità ma contemporaneamente immersi in essa nonché delle vere e proprie “riserve di immaginazione”. Lo spazio del bar che ci presenta l’autore è quasi un luogo magico, incantato, in cui si ripetono gli stessi rituali (appunto, come all’interno di uno spazio sacro) e in cui ci si ritrova in un vero e proprio mondo separato rispetto a quello esterno. Quelli dei bar dei racconti sono interni bui e in penombra in assolate giornate estive, spesso silenziosi, nei momenti in cui ci sono pochi avventori, caldi cantucci accoglienti quando fuori fa freddo e si alza la nebbia. Sono luoghi in cui coltivare le proprie personalissime malinconie e darvi sfogo, magari aiutandosi con la gradazione alcolica delle bevande oppure dove rifugiarsi quando la malinconia che c’è fuori, per le strade o a casa propria, è diventata insopportabile. Il libro raccoglie dei racconti tutti ambientati all’interno di bar (reali) ai quali è stato dato – spesso in modo geniale – un nome fittizio; le città che stanno fuori dai bar, anch’esse rigorosamente senza nome, sono spesso Livorno e Milano (rispettivamente, la città natale dell’autore e quella dove ha vissuto diversi anni per svolgere il suo lavoro di insegnante), altre volte è riconoscibile Pisa. I racconti sono intervallati da altre storie più brevi che raccontano le deambulazioni alcoliche di un personaggio denominato “Drunk Man Walking”, le quali fungono da vero e proprio intermezzo fra un gruppo di racconti e un altro.
Falorni è un vero e proprio maestro nel creare e descrivere atmosfere. Alcune volte, la scrittura assume un piglio cinematografico (l’autore è stato infatti anche aiuto regista ed è un bravo videomaker) nella descrizione degli ambienti, nello spostarsi sapientemente dal dentro al fuori o viceversa, nel saper alternare, come sulla scena di un teatro, le apparizioni e le battute dei personaggi. Nei bar, all’interno dei quali le descrizioni si soffermano soprattutto sulla disposizione dei tavoli, del bancone e sulla immancabile macchina da caffè, spesso incontriamo un personaggio io narrante, probabilmente l’alter ego dell’autore. Sovente, le atmosfere nelle quali sono immersi gli ‘spazi altri’ dei bar sono caratterizzate dal tempo grigio, dal vento che spazza le strade, dalla pioggia o dalla nebbia di tardi autunni o inverni che forse appartengono al presente oppure a un passato più o meno lontano, in cui le relazioni fra gli individui non erano filtrate dalla imperversante tecnologia digitale. Autunni e inverni in cui, frugando nelle tasche del giaccone, si potevano trovare cento o duecento lire invece degli euri, e in cui se si voleva telefonare si doveva andare nelle cabine o, per l’appunto, al bar.
L’atmosfera fredda e invernale che avvolge la città, nel racconto intitolato Bar Capitale, viene come stemperata dallo spazio chiuso e ‘separato’ del bar, un tempo assai più rinomato di oggi per caldi ponci e ‘torpedini’. Così è l’incipit del racconto: “Ti tocca una serata spenta e banale come tante altre ne possono capitare a chiunque nell’inverno infinito delle città di mare” e la memoria corre subito alle malinconiche atmosfere create da Valerio Zurlini ne La prima notte di quiete (1972), in cui il professore di Lettere Daniele Dominici (Alain Delon), arrivato in una livida Rimini invernale, trascorre le sue serate fra bar e bische clandestine. Oltretutto, nel racconto, ci troviamo in “un brumoso lunedì / martedì di novembre in riva al mare, quando magari ha piovuto tutto il giorno”. Certo – commenta l’io narrante – non siamo in estate, quando il paese alle porte della città è invece affollatissimo dai bagnanti. Adesso, in inverno, camminare dopo essere usciti dal bar consisterebbe solo in “un’umida passeggiata verso la malinconia del mare d’inverno, schiumeggiante per il vento che si sente sibilare anche qui dentro, rinchiusi dietro le spesse porte e finestre”. E l’io narrante, silenzioso e circospetto, scorge altri personaggi, tra cui una coppia di giovani legati forse da un tormentato rapporto d’amore, che hanno fatto una passeggiata sul lungomare della loro città per giungere fino a quel bar, in quel giorno d’inverno sotto la pioggia. E allora gli scorci di paesaggio triste penetrano all’interno stesso del bar, quella passeggiata e quei due ragazzi sono squarci di spazi esterni che si compenetrano con lo spazio eterotopico, caldo e accogliente, del locale. L’autore riesce molto bene a far dialogare i due spazi, il ‘fuori’ e il ‘dentro’, in modo che il ‘dentro’ non escluda mai il ‘fuori’ e che quest’ultimo riesca a insinuarsi in qualche modo nel ‘dentro’. Il bar è allora uno spazio di confine, certo, di ibridazione, dove la solitudine può essere silenziosa e felice e la compagnia becera e triste. E, come spazio di confine, come spazio quasi ‘sacro’, non è un caso che il bar costituisca forse l’ultimo lembo di mondo che diversi personaggi – non vorrei però rivelare più di tanto di questi sorprendenti racconti – riescono a intravedere prima della loro dipartita. Racconti come Bar Gino (già La Foce), arricchito da un finale in cui una citazione da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Pavese si inserisce quasi naturalmente nel testo, o Novo bar, ci mostrano personaggi in bilico sulle loro vite, pronti a scivolare verso una morte che non appare mai tragica, ma quasi catartica e serena.
Una triste malinconia invernale la respiriamo anche nel racconto intitolato antifrasticamente Bar Maggio. Quest’ultimo si trova molto probabilmente a Milano e l’io narrante, stavolta, si sorbisce un rigenerante “King Kong” mentre fuori imperversa la nebbia. E allora è bello incontrare, nel bar, un altro bevitore solitario come te e con lui uscire dal locale e insieme accendere una sigaretta, il cui fumo si mescola alla nebbia che ormai avvolge quelle strade di periferia. Lo spazio esterno, allora, appare quasi una prosecuzione di quello interno del bar, in cui il personaggio era immerso nel suo passato e nei suoi pensieri; la strada percorsa a piedi, nella sera nebbiosa, verso casa, è quasi uno spazio mentale, un viaggio di quei pensieri che continuano a vagabondare anche una volta usciti dall’atmosfera calda e regressiva del bar. Squarci di Milano compaiono anche in Bar Autogrill, in cui il protagonista ritorna nel capoluogo lombardo all’alba e, da quel bar, riesce a scorgere il “torracchione di Cologno Monzese”. La parola “torracchione” non può non farci pensare alla Vita agra (1962) di Luciano Bianciardi, autore molto amato da Falorni: è proprio il “torracchione” della Montedison, a Milano, che il protagonista del romanzo di Bianciardi vorrebbe far saltare in aria con il tritolo, emblema di un’azienda colpevole di uno scoppio di grisù in una miniera di Ribolla, in Maremma (la terra di Bianciardi), che nel 1954 ha provocato una strage fra i minatori. E allora, se pensiamo a Bianciardi, tutti i bar raccontati in questa raccolta ci fanno venire in mente il “Bar delle Antille” (cioè il Bar Giamaica, nel quartiere milanese di Brera, oggi vittima della gentrification) della stessa Vita agra, vero e proprio microcosmo in un quartiere all’epoca frequentato da letterati e artisti poveri in canna. Anch’esso un bar-teatro in cui sfilano davanti al protagonista curiosi e stupendi personaggi, rivisitazione di personaggi reali che lo stesso Bianciardi incontrava quotidianamente al Bar Giamaica.
Per concludere, è importante avvertire il lettore che con Abituali. 21 (più uno) racconti da bar non si troverà mai di fronte alla banalità. Le storie, i personaggi e le vicende sono sempre sorprendenti fino al finale che spesso, con una nettezza e una concisione epigrammatiche, giunge come uno strale inaspettato. Sorprendente è anche l’apparizione, a un certo momento, dei tratti fantascientifici di cui sono intrisi alcuni racconti (bar immersi in futuri distopici che altro non sono se non il nostro tempo): altra indiscutibile prova della loro non banalità. Perché, in fin dei conti, un bar non può essere mai banale: uno spazio intriso fino al midollo di storie, volti, narrazioni, chiacchierate, solitudini; uno spazio che, spesso, nei racconti di Falorni, genera rimandi letterari e cinematografici. In definitiva, si tratta di una vera e propria “riserva di immaginazione”, per riprendere la suggestione foucaultiana: una immaginazione – e un immaginario, si potrebbe aggiungere – che costituisce una vera forma di resistenza al conformistico vuoto da cui ogni giorno siamo sempre più sommersi.
Guy van Stratten
Luca Falorni, Abituali. 21 (più uno) racconti da bar, Felici Editore, Pisa, 2022, pp. 276, euro16,00.