Comunicazione e culture

Memorie di confine di Mario Coglitore

“In realtà, mai come nelle guerre civili le due parti sono irrimediabilmente diverse e divise.”

(Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza)

In un’epoca come la nostra, le memorie non soltanto continuano a confliggere, ma si sta aprendo una fase della storia europea – qualunque cosa sia Europa al momento, e dunque ben oltre i confini del vecchio continente se soltanto pensiamo all’Ungheria o alla Turchia dal punto di vista dei regimi autoritari che trovano ampi consensi in casa nostra e non soltanto – che non promette niente di buono.
Ha scritto Jacques Le Goff che “[…] Storia e memoria si nutrono l’una dell’altra ma non si confondono tra di loro.”(1)
Né potrebbero farlo. Si tratta di tenere distinti, in una parola, i contenuti dell’analisi storica dalle loro possibili rappresentazioni, quelle, per l’appunto, che si acquattano nella memoria, o meglio nelle memorie, e colmano la misura dei ricordi, per molti insopportabili.

Ogni memoria è memoria di confine e ciascuna di esse scivola, molte volte graffiando con segni profondi, sul limitare delle altre, in un gioco di rimandi che non trova quiete se non nel diluirsi, viscoso, del tempo che passa. Le angustie e le difficoltà dell’interpretazione storica, specie se sofferta, possono restituire il carattere degli eventi, la loro complessità, a volte persino la loro implicita “verità”, ma difficilmente ridisegneranno la geografia della memoria con i suoi territori frastagliati e ricomponibili soltanto nella dimensione generale dei suoi “quadri”. “Quadri sociali”, secondo la prospettiva d’indagine di Maurice Halbwachs – ben noto e sfortunato sociologo francese scomparso nel campo di concentramento di Buchenwald nel 1945 – che accoglieremo da qui in poi, capaci di racchiudere singole memorie individuali in un più ampio contenitore di tracce mnemoniche collettive.

Una delle caratteristiche della memoria individuale consiste nel riattualizzare il passato in immagini presenti alla coscienza (Bergson la chiamava “memoria-immagine”). Tuttavia, a detta di Halbwachs, l’individuo non è un’isola sperduta nell’immensa solitudine dell’oceano e bisogna cercare di comprendere l’intera struttura della memoria nel suo articolarsi rispetto al contesto in cui viene esercitata. La memoria come funzione psicologica del singolo essere umano non riconducibile all’esperienza sociale è appena il principio di un processo molto più articolato. Anche i ricordi individuali sono rievocati e mediati da un gruppo di appartenenza all’interno del quale vengono messi in relazione con gli altri, e così soltanto trovano ragione d’esistenza. Il passaggio alla memoria collettiva è possibile grazie alla presenza di quei quadri sociali cui abbiamo accennato che permettono la conservazione, lo sviluppo e l’esplicitazione dei contenuti della memoria dei singoli. Il linguaggio, a questo proposito, rappresenta un quadro collettivo, all’interno del quale le convenzioni verbali costituiscono il campo di interazione più stabile e più elementare di costruzione della stessa memoria. Il ragionamento diventa interessante quando ponessimo attenzione ai racconti, radicalmente opponibili gli uni agli altri, di chi ha vissuto gli stessi eventi da posizioni contrapposte: ricordare per l’individuo corrisponde a riattualizzare la memoria di un gruppo sociale di cui egli ha fatto parte in passato, o di cui fa parte e continuerà a far parte perché ne condivide la stessa narrazione; quell’insieme di discorsi pronunciati e ascoltati gli spiega la realtà, la rende a lui conoscibile. La realtà che il “quadro sociale” di riferimento indica nella sua unicità come vera è per il singolo individuo prevalente e insostituibile.

L’oblio, al contrario, la possibilità di dimenticare cancellando le linee del tempo, se accogliamo questa prospettiva d’analisi, segna la fine del rapporto con la peculiare corrente di pensiero collettivo di un determinato gruppo. Sul crinale scosceso della storia, tra balzi temporali e localizzazioni spaziali degli eventi che disorientano anche il più abile dei ricercatori, chi ricorda, o vuole dimenticare, dovrà fare i conti con l’ambiente nel quale è immerso. Il passato non si conserva affatto, piuttosto si ricostruisce di continuo; e la memoria, insiste Halbwachs, è essenzialmente ricostruzione del passato in funzione del presente. I “quadri collettivi” della memoria non sono prodotti a posteriori dalla combinazione di ricordi individuali, ma rappresentano invece veri e propri strumenti dei quali la memoria si serve per restituire sembianze del passato che in ogni epoca si accordano con i pensieri dominanti della società: pensieri molteplici e distinti, che collidono, si sparpagliano e si raggrumano in localizzazioni differenti; a tratti prevalgono ristagnando in apparati mentali posti a difesa dei diversi schieramenti che in quella società combattono per prevalere, o, semplicemente, per sopravvivere alla tentazione del silenzio.
La soluzione della spinosa equazione della memoria sta, dunque, nella società. Bisognerà, perciò, interrogarsi a lungo sulle sue funzioni sociali; essa va considerata come un’istituzione, come problema, per essere più precisi, delle forme istituzionalizzate che l’immagine del passato assume nella coscienza dei gruppi. Ricordare, insomma, è attualizzare la memoria di un gruppo, ed è azione che avviene nel presente e che dal presente dipende. Così, la ricomposizione del passato corrisponde agli interessi e ai bisogni ideali della società attuale, quella di cui si è parte integrante; sono i “pensieri dominanti”, come li definisce Halbwachs, invarianti culturali potremmo dire con maggior precisione, su cui riposa l’immaginario sociale: nodi problematici di non poco conto sui quali anche gli storici più avveduti si sono interrogati spesso e ancora si interrogano.

I contenuti della memoria collettiva si condensano in un insieme mobile di ricordi che è costantemente rivisitato e modificato, un fenomeno dinamico che nasce dalle esigenze dei gruppi viventi. Ciò è vero in particolare nel caso di agglomerati sociali articolati e complessi, come il nostro. Le memorie elaborate dalla coscienza comune riflettono uno scontro in cui sono decisivi i rapporti di potere stabiliti tra insiemi eterogenei di esseri umani, in direzione tra loro ostinata e contraria, dei quali la società occidentale è composta nella sua globalità. Di fatto, non esiste memoria collettiva di un “ambiente” sociale definito che non comporti delle differenze al suo interno, che non produca zone, a volte residuali, dove (con)vivono altre memorie, partizioni coerenti di raffigurazioni del tempo e dello spazio modulate da linguaggi comuni.

Sono numerose le evidenze che abbiamo sotto gli occhi, in una mai pacificata memoria nazionale che si vorrebbe condivisa nonostante le asprezze di ricongiungimenti nella maggioranza dei casi impossibili. Dal confine immaginario al confine territoriale nella sua materialità precaria, il passo è breve. Volgendo a Est lo sguardo, l’Italia orientale inciampa ancor oggi in buche profonde che la natura ha seminato in terre impervie. Dentro a quegli anfratti di roccia e vegetazione – le foibe del Carso e dell’Istria – covano gli orrori di memorie lontane che credevamo seppellite dal correre inarrestabile del tempo, il grande obliteratore di circostanze storiche impresentabili. Laggiù, la crudezza di mondi in perenne conflitto del ricordo ha dato il tormento a generazioni fatalmente travolte dagli eventi che nessuna indagine storica, in realtà, riesce a lenire, nemmeno quando i fatti quasi si raccontano da sé. La soglia che separa le due narrazioni in insanabile contrasto su quelle cavità a strapiombo rubate al paesaggio per farle diventare cimiteri a buon mercato è, senza ombra di dubbio, costellata di cadaveri, immagine forte ma necessaria se non vogliamo togliere al passato la riconoscibilità che gli spetta; né ci aiuta in prospettiva storica e tanto meno sociologica, come è stato fatto, proporre una contabilità dei corpi per declinare quei fatti secondo la logica del “minor numero” rispetto al dato complessivo fornito da coloro che hanno denunciato a gran voce un eccidio di massa perpetrato dai comunisti di Tito. A prescindere da ogni “matematica” dei dispersi e dai fatti, le memorie collettive resistono con la forza della soggettività e continuano a collidere perché ciascuna memoria dei singoli si condensa in quella del “quadro sociale” cui appartiene, suscitando senza sosta insanabili divisioni politiche e umane.
Ma forse di più vale, in termine di riflessione generale, s’intende, e certo non per attribuire minore importanza ai drammi patiti, l’esempio del passato che, volenti o nolenti, ci portiamo addosso nella progressiva indifferenza, oggi, della maggioranza dei nostri figli e che richiama, con ineliminabile assiduità, il controverso clima politico e sociale degli anni della Resistenza, in un Paese divelto dalla guerra e piagato dall’odio tra italiani in una vera e propria guerra civile, come ha ben argomentato Claudio Pavone (2).

Davvero – proviamo per una volta a riflettere con una vena di disincanto, se volete – è arrivato con ogni probabilità il momento di prendere definitivamente atto che non è tanto questione di vincitori o vinti, vittime o carnefici, ma soltanto di dissonanti e monolitiche modalità del ricordo tutte, nessuna esclusa, con il loro carico di violenza subìta, di pena insopportabile, di lacrime amare; e di morte, in una parola, nel significato, terribile, di vita strappata alla gioventù, come è stato per tantissimi, agli amici, alla famiglia, alla comunità. Rimane ferma, naturalmente, la indiscutibile, questo va affermato con chiarezza, difformità dei “progetti” politici, ideologici e in ultima istanza culturali per distinguere in maniera altrettanto decisiva chi stava combattendo e per cosa stava combattendo, vale a dire libertà contro tirannia.

Che le memorie restino inconciliabili non è un artificio dialettico, il tentativo estremo di sottrarsi a una presa di posizione, ma forse l’accettazione dell’inevitabilità della storia, delle storie, che, al pari dell’argilla quando si asciuga, hanno dato forma alla società sopravvivendo nel ricordo.

Mario Coglitore

 

 

(1) Cfr. Jacques Le Goff, Prefazione, in AA.VV., A Est, la memoria ritrovata, Einaudi, Torino 1991 (ed. or. 1990), p. XVI.

(2) Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. IX-XVI. Rimando a una lettura completa del corposo saggio.