Fuga da Elbatraz
E così sono finito a Elbatraz, il famigerato supercarcere di massima sicurezza posto su un’isola all’imboccatura del canale di Tubino. Non voglio annoiarvi raccontandovi la mia storia, sarebbe troppo lunga. Voglio invece raccontarvi come sono evaso da questo terribile penitenziario: ebbene sì, sono riuscito in un’azione quasi impossibile! Vi basti sapere che mi chiamo Frank Porris e sono stato rinchiuso a Elbatraz, condannato a trent’anni di carcere per aver rubato una tavoletta di cioccolato in un elegantissimo negozio di dolciumi nella città di Pilano, in via Collinapoleone. Erano d’altronde tempi duri: si era da poco insediata la coalizione di governo guidata da Georgia Poponi e Matteo Maria Perdutini, di estrema destra. Anche il minimo reato veniva punito duramente, e così mi ritrovai in una cella del famoso penitenziario insieme ad Aziz, di origine africana, condannato a venticinque anni per immigrazione clandestina, e a Johnny de Nano, pittore dilettante, al quale il direttore aveva proibito di dipingere. Per disperazione, il povero de Nano si era tagliato una mano.
In sala mensa conobbi altri personaggi interessanti: ad esempio, Leopoldo Barboni, un appassionato di fantascienza, che credeva di provenire, dopo un viaggio nell’iperspazio, dal pianeta Strinzo (era stato arrestato perché, col nuovo regime, era anche proibito immaginare fatti e avvenimenti non reali), oppure Al Cacone, un temutissimo gangster di strada. In cella Aziz mi raccontava che, prima di essere arrestato, venne perseguitato in maniera terribile dal mostruoso Pu-Plux-Plan, che era stato ricostituito. D’altronde, esso aveva alcuni suoi membri infiltrati anche in carcere, che gli rendevano la vita impossibile. Da parte mia, trascorrevo le giornate nell’ozio (era infatti proibito leggere e scrivere, che erano le mie attività preferite), steso in branda, e ogni tanto mi affacciavo alla finestrina della cella, che dava sulla baia. Il carcere era veramente un maniero inerpicato su rocce aguzze e mi ricordava la fortezza dove era stato rinchiuso Edmond Dantès, alias il conte di Montecristo, in quello che è uno dei miei romanzi preferiti. La parte dell’isola dove si trovava il carcere era brulla e segnata da una natura ostile agli esseri umani. D’altra parte, nell’ora d’aria quotidiana non vedevamo assolutamente nulla, poiché il nostro camminamento era sormontato da giganteschi muri. Sull’estremo opposto dell’isola, sorgeva invece la città di Port Metal, una elegante stazione balneare frequentata da turisti benestanti di tutto il mondo, i quali non potevano nemmeno lontanamente immaginare la nostra vita ad Elbatraz.
Alla fine, dopo lunghe elucubrazioni, insieme ad Aziz e a Johnny, decidemmo di pianificare una fuga. Tutti ci avevano sconsigliato di tentare una cosa del genere, perfino un duro come Al Cacone mi disse che non ci aveva mai nemmeno lontanamente pensato. Nella baia, proprio di fronte al carcere, era stata predisposta una vasca di terribili squali-tigre, separata dalle acque circostanti, mentre sulle torri di guardia decine di addestratissime vedette avevano l’ordine di sparare a vista giorno e notte su qualsiasi detenuto che tentasse un’evasione. In un primo momento abbiamo pensato di costruire una specie di canotto inaffondabile, a prova di denti di squalo, cercando di arrivare sugli scogli prospicienti la fortezza scavando un tunnel con dei cucchiaini sottratti in sala mensa. Dopo cinque anni di lavoro abbandonammo l’impresa perché, continuando a scavare, ci siamo trovati di fronte un muro impenetrabile, quello dell’antico forte spagnolo in cui l’Inquisizione rinchiudeva i suoi nemici. Passammo altri anni nella disperazione finché fu Aziz ad avere l’intuizione: nascondersi nei sacchi della biancheria sporca che quasi giornalmente veniva portata via dalla cella di Al Cacone il quale, facendo fede al suo nome, sporcava spessissimo le lenzuola in cui dormiva. Era una via di fuga orribile (immaginatevi la puzza che avremmo dovuto sopportare) ma dovevamo almeno provare.
Il piano era complicato, anche se all’apparenza potrebbe apparirvi semplice. Ci saremmo nascosti sotto le lenzuola, che venivano riposte in grandi ceste per poi essere portate alla lavanderia del carcere. Avevamo approntato due tipi di travestimenti diversi, da indossare l’uno sopra l’altro: il primo, naturalmente, era quello degli addetti alla lavanderia, che provenivano da una ditta esterna. Il secondo (immaginate un po’?) era quello che indossavano i marittimi della Gostomar, la compagnia di navigazione che faceva la spola fra Port Metal e Tubino. Ma il nostro costume era quello dei marittimi di infima categoria, quelli che lavoravano nella sala macchine dei mostruosi traghetti e che non vedevano mai la luce del sole. Così non ci saremmo esposti al pubblico. Tutto andò liscio: sgusciammo di nascosto da sotto le ceste e ci infilammo nei furgoni insieme agli addetti (dovemmo simulare un precedente attacco di dissenteria per giustificare la puzza da cui eravamo avvolti). Giunti alla ditta fingemmo di dovere andare alla toilette d’urgenza e fuggimmo da una porta laterale. A questo punto ci togliemmo i costumi da lavandai e rimanemmo con la divisa da marittimi. Entrammo nella nave insieme agli altri motoristi e passammo inosservati. La traversata fu infernale: otto ore nel caldo terribile della sala macchine, fra altiforni e caldaie. Dopo un viaggio infinito la nave approdò a Tubino e dovemmo aspettare la notte per poter uscire. Se fossimo rimasti dentro, la mattina dopo ci saremmo ritrovati inesorabilmente a Port Metal, perché la nave sarebbe ripartita molto presto.
Fuggimmo di notte e ci ritrovammo nella tetra zona industriale di Tubino, ormai in disuso: inani mostri meccanici erano bloccati come abnormi fantasmi nella notte, vampiri giganti che stavano per ghermirci, uccelli dagli artigli di gru rimasti intrappolati in pose innaturali dall’ultima volta che le industrie furono usate. Passammo lì la notte, nascosti dietro a un grigio container da dove sarebbe fuggita perfino la nera Malinconia in persona. Il giorno dopo ci separammo: sarebbe stato infatti pericoloso farsi trovare insieme, avrebbero subito identificato i tre evasi di Elbatraz. Aziz fu il primo ad andare per la sua strada, deciso a lasciare un paese in cui l’odio per lo straniero, per il ‘diverso’ era cresciuto a livelli indescrivibili. Non potei dargli torto. Di lui non seppi più nulla. Anche Johnny de Nano se ne andò per la sua strada e, dopo molti anni, seppi che aveva aperto una bottega di pittore nel centro di Tangeri. E io? Beh, qui finisce la mia storia e io sono sempre Frank Porris, quello che è riuscito a evadere da Elbatraz. Mi sono ricostruito una vita in un paese lontano: dove, non starò certo a raccontarlo a voi adesso. Vi dirò soltanto che trascorro tutto il mio tempo a leggere e a scrivere tutto ciò che voglio, in barba ai divieti di Elbatraz e a qualsiasi divieto.
gvs