Il mio lanzichenecco viaggio in treno
Sui binari della stazione di Milano Centrale erano fermi i treni meravigliosamente addormentati. Ne vidi uno dai contorni dorati, dalle carrozze eleganti come cocchi di ere passate: la sua destinazione era Vienna l’aurata, la nobile capitale asburgica e silenziosa. Mi riservavo quel treno per l’inverno, dove avrei goduto di boschi d’incanto in compagnia di signori di antichi castelli, miei cugini di secondo e terzo grado, e di vampiri bloccati da secoli nei loro saloni, un tempo avidi di rossi succhi prodotti dai contadini, fra i boschi, in alto tra le montagne come a guardia di vallate abitate da lupi e da animali da pelliccia.
Purtroppo non avevo trovato posto sul Frecciarossa 1000, che saettava a trecento all’ora nella pianura padana e perciò il mio treno per quella volta fu l’Intercity 493 diretto a Livorno Centrale che impiegava più tempo di quanto ci mettesse il treno viennese per arrivare a destinazione. Ma io volevo proprio andare a rinfrancarmi al mare liburneo da mio cugino Romualdo, che aveva affittato una cabina ai bagni “Pancotti” per tutta l’estate, bagni eleganti prediletti un tempo dai reali: avevo infatti appena finito gli esami di “Mitopoiesi del ciclo arturiano e gramsciano”, materia che insegno alla Cattolica del Sacro Cuore. L’esoscheletro della stazione era di ferro e nella calura d’agosto era infuocato, non era più nero ma lanciava rossastri bagliori. Avevo con me una valigia e uno zaino e presi posto in una carrozza in coda.
La prima classe infatti era già piena, così dovetti accontentarmi della seconda, con l’aria condizionata che funzionava un po’ sì e un po’ no, dove tra vari spintoni trovai il mio posto era già occupato da un belluino con un bianco vestito, che non aveva fatto neppure il biglietto. Andatosene a un mio cenno, contrariato, le sue imprecazioni continuarono per qualche secondo declinandosi in consonanti labiali, e finalmente mi misi a sedere. La mia milanesità era squisitamente intellettuale: infatti, con nonchalance, tirai fuori dallo zaino modello “docente universitario radicato in ambienti chic” il libro che mi proponevo di leggere durante il viaggio, e cioè L’uomo senza qualità di Robert Musil, opera che stavo leggendo rigorosamente in tedesco. Passò il capotreno, un romano dalla barba a punta e dalle braccia tatuate che mi squadrò di sbieco; io pensai: “questo è probabilmente un cafone, cosa si crede, forse che io viaggi senza biglietto? Mica sono parte del corpo del popolo minuto!”. Per farla breve, tirai fuori anche “Il venerdì nero” di Respunica, “Robinson” e “Tarzan”, “Gulliver” e Il corriere che Pesa”, “L’untità” e “Il PièdiEfesto” per far vedere in giro la mia levatura, insomma, io quelle rivistucce non solo le leggevo, ma anche ci scrivevo! Ahimè, il mio posto era alquanto sfigato: di fronte una grassona diretta a Roma Tiburtina che stava tirando fuori una sportina piena di bucatini all’amatriciana e al mio fianco, Giorgi Boy (come lo sentii chiamare), un rapper di dodici anni che faceva uscire dal suo smartphone da settecento euro musica giovanile a tutto volume con varie sonorità di sottofondo assai somiglianti a dei rutti. Giorgi aveva un cappellino a visiera e un vistoso anello al dito; oltretutto si muoveva costantemente a suon di musica imprimendo un ritmo terremotesco anche alla mia poltroncina. Di fronte a Giorgi Boy era seduto il padre, un tatuato di quarant’anni dall’accento meridionale che mi guardava con diffidenza. Ad ogni fermata (e furono più di cento), si alzava per fumare una sigaretta elettronica appoggiato al predellino.
Sferragliando, finalmente, l’Intercity si mosse da Milano centrale. Alla mia destra si trovava un’intera famiglia di zulu (li conoscevo bene, ero titolare anche di un corso di antropologia culturale) che banchettava con panini al salame dicendo ad alta voce frasi senza alcun senso. Aprii la Respunica ma ogni cinque minuti passava il pulitore di cessi, con la sua scia di Lisoform e mi spiegazzava continuamente il giornale di fatto impedendomi la lettura. Alla stazione di Milano Rogoredo è salito un Amerindos con la sua chitarra e fra una carrozza e l’altra, sorseggiando una bevanda, suonava il suo strumento senza alcun ritegno. Intanto Giorgi Boy si lanciava in un canto ritmato e il terremoto inferto alla mia poltroncina aumentava sempre di più: “sono Giorgi Boy, yeah yeah, sono come tu mi vuoi, yeah yeah, vado a duecento con er suv de mio babà, e la minghia nun me scassà, yeah yeah, vieni a fare con me un giro, che ti viene un capogiro!”. Mi misi i tappi nelle orecchie (per fortuna non li avevo dimenticati): è uno stratagemma che utilizzo sempre quando – in casi eccezionali – devo prendere l’Intercity 493. Alla stazione di Pavia è salito un ragazzetto vestito da pistolero: solo dopo seppi che era soprannominato Jonny il Ranchero perché era il rampollo di una famiglia di allevatori di maiali della zona. Sfortunatamente, nella mia carrozza si era liberato un posto dietro al padre di Giorgi (e quindi non lontano da me!) e Jonny lì si sedette. Aveva sette pistole ad aria compressa e si esercitava al tiro al piattello emettendo continuamente una serie di boati. Niente da fare: il viaggio andava di male in peggio perché alla stazione di Tortona è salito un pasticcere sovietico, ex agente del KGB, che esibiva elegantemente una pancia gigante. Nelle sue mani giganteggiava poi una enorme torta al cactus sahariano. Ahimè, mi sentivo umiliato da tanta lordura umana e mi stavo già pentendo della mia scelta di andare al mare! Avrei preferito, in quel momento, starmene a sorseggiare Campari con seltz a un tavolo di un elegante bistrot della Galleria Vittorio Emanuele!
A chi dare la colpa? Alle Ferrovie? che accolgono a sedere ogni scavezzacollo incapace di rendersi padrone della propria fortuna, della dignità e dell’autocontrollo? Se lavorassero in campi di lavoro forzati come la Siberia di un tempo troverebbero la maniera di moderarsi e di redimere quelle loro anime piene di desideri e passioni, sempre scellerate e imbizzarrite dalla fame e dai bisogni primari. Ma ahimè, non c’era verso. A Genova Principe non salì un principe (magari!) ma un collegio itinerante di bambini vestiti tutti uguali che urlavan “solo noi!” a tutto volume. Li capeggiava un capellone di diciott’anni che urlava cori babbei e rime invasate. Per me non c’era pace: “Robinson”, “Tarzan” e “Gulliver” (che tra l’altro quel giorno ospitava anche un mio articolo d’opinione sulla vacuità letteraria contemporanea) ormai eran tutti spiegazzati sul sedile ed erano totalmente illeggibili. Beati quei signori vampiri perduti nei loro castelli transalpini! Io nell’Intercity ero ormai lo spettro di me stesso. Alle fermate successive son saliti, nell’ordine, un intagliatore di lattine di Fanta, un cinese con un ventilatore, una coppia di eremiti della Lunigiana, una giapponese diretta a Roma Termini, un alpinista dilettante delle Cinque Terre, i bagnanti in costume che andavano a Monterosso a tuffarsi allo scoglio del pescatore, e per spostarsi usavano l’Intercity, un addestratore di gatti e un livornese con sette cani lupo.
Non ne potevo più: abbandonai giornali e libro (quel giorno più non ne leggei avante del pover huomo sanza qualità), calcai ben bene i tappi nelle orecchie e mi misi i paraocchi per poter dormire almeno un po’, nonostante tutto quel chiasso. Alla stazione di Pisa il treno si svuotò: perfino Giorgi Boy e il padre cambiarono treno per recarsi nel loro mefitico Sud. Anche la grassona romana era scesa per andarsene alfine nella corrotta capitale e io rimasi quasi solo nella carrozza semideserta. Dico “quasi” perché vicino a me ora si trovava il livornese con sette cani lupo i quali mi guardavano coi loro rossi occhi assetati di sangue e ringhiavano senza smettere di fissarmi. Passai gli ultimi venti minuti di viaggio con il sangue che mi si gelava nelle vene. Per fortuna Livorno centrale arrivò presto e sul binario mi attendeva il caro Romualdo, di origini venete ma trasferitosi da alcuni anni nella città tirrenica. “Carissimo cugino!” – mi disse – “Son contento di vederti qui al mare come tuti gli ani ciò! Ma stai atento a el kan!” “Quale can??” – pensai ma non feci in tempo nemmeno a profferir parola quando il più feroce dei sette cani lupo, dopo un viaggio di otto ore senza poter espletare i suoi bisogni, alzata la zampa, stava orinando sulla mia scarpa radical chic, la sportiva estiva presa in via Montenapoleone solamente l’anno scorso!
Francesca Fiorentin e gvs