Novelle

Il muro antico

L’estate era finita ma il caldo persisteva. Ulderico aveva già da tempo ripreso il suo lavoro e Michelino e Michelone avevano iniziato a frequentare le scuole a Citorno. A causa della mancanza di spazio, la scuola di Michelino aveva smistato i suoi alunni addirittura su una vecchia nave ormeggiata nel porto e Ulderico, tutti i giorni, prima di andare al lavoro, doveva accompagnarlo su una pencolante scaletta di corda. Ma il più sorprendente, nel percorso scolastico, fu Michelone, il figlio più grande: si appassionò tantissimo alla storia dell’arte e in particolare all’arte citornese tanto da trascorrere i suoi giorni a guardare sui libri le opere di celebri maestri locali, come Natalini, Romitaggi o Sordelli. Sfogliava libri di pittura, si perdeva nelle pennellate dei colori a olio, in quei colori macchiaioli che si stendevano su marine solitarie, stradine di campagna, notturni lunari, palazzi che parevano abbandonati nel loro silenzio, tanto svettavano nella loro allampanata mole. Si era appassionato ai chiari di luna di Romitaggi, che ritraevano le calette di Arbenza e Allignano quando ancora eran selvagge, avvolte di siepi e muschi odorosi, ai colori blu di Natalini, specchi incantati di una meravigliosa città che non esiste più e che potremo ritrovare soltanto nei sogni, agli acquerelli magici di Sordelli, con le loro silenti e perfette architetture.

Michelone vagava per Citorno a cercare spazi e anfratti superstiti, rimasti intatti dalle bombe americane della guerra mondiale, ma più difficile era trovare quelli sopravvissuti alle ristrutturazioni operate dall’amministrazione comunale, a partire dal dopoguerra: quanti palazzi che potevan esser salvati furono abbattuti, quanti scorci ottocenteschi devastati da palazzi a forma di cubo! Glielo aveva raccontato il pittore Spadoni, davanti a un piatto di spaghetti allo scoglio alla trattoria “Angelo Verde”, e quante storie aveva ascoltato dai pittori arbenzini! Per fortuna, una delle poche vestigia rimaste in piedi non era troppo distante da casa sua: era un muro antico in via dell’Embriogiana che era stato addirittura lo sfondo di un quadro di Romitaggi. Lo aveva ben presente, lo aveva visto e rivisto sui suoi libri, ne aveva studiato i tratti fini ed eleganti: era un olio su tela che raffigurava il passaggio di una elegante carrozza, in una giornata col cielo solcato da striature dorate e a cassetta stava un distinto cocchiere che portava in giro due signori assai altolocati. L’antico muro era lì, dietro la carrozza e svettava nella sua monumentale presenza, sia nel dipinto che – cosa mirabile a dirsi – anche nella realtà. Ogni giorno, dopo la scuola, Michelone si recava in via dell’Embriogiana a contemplare il muro, a confrontare il dipinto con quello squarcio reale che sembrava uscito dai pennelli del maestro citornese.

Un brutto giorno Michelone si ammalò, chissà, forse colto anche lui da quelle stesse intossicazioni di fumi navali che avevan colpito suo fratello, e dovette stare alcuni giorni a casa, senza poter andare a scuola e senza poter recarsi a contemplare il suo adorato muro. Ulderico pensò che forse era un bene che il ragazzo stesse un po’ a casa, senza andare tutti i giorni in via dell’Embriogiana a guardare un muro, perché quella pittura cominciava a diventare una vera ossessione, che non gli venisse in mente di diventar pittore da grande, a far la fame! No, per Michelone lui voleva un bell’impiego pubblico, proprio come il suo. Il fatto è che, quando Michelone, guarito, poté recarsi di nuovo al suo muro, questo non c’era più. Era stato abbattuto e al suo posto campeggiava una recinzione dei lavori in corso. Che tragedia terribile fu per il ragazzo! stette altri tre giorni chiuso in casa a piangere e a lamentarsi, senza uscire con gli amici e senza andare a scuola. Dopo un po’ Ulderico seppe che il muro era stato abbattuto per costruire una pista ciclabile, per allargare la strada e farla più bella, da piccola e stretta com’era. Tanto più che nessuno poteva recriminare la costruzione di una pista ciclabile, bella ed ecologica, che sarebbe servita, in quegli ultimi giorni di caldo estivo, anche per il passaggio dei medusieri in bicicletta che, da lì, potevano recarsi più rapidamente sul lungomare. Meglio sicuramente di quello scalcinato muro.

Insomma, a Ulderico questa storia ricordava tanto quella degli alberi abbattuti così, da un momento all’altro. Però ci furono anche appelli e mobilitazioni: il più importante appello venne lanciato dal professor Aristoteles Kakopulos, esimio studioso di storia e arte locali, che accusava la stoltezza degli autori di quella distruzione e si augurava che il muro venisse ricostruito al più presto. Michelone, dopo una crisi iniziale, continuava a recarsi tutti i giorni in quell’antica strada e Ulderico si unì al suo triste pellegrinaggio là dove c’era il muro e adesso non c’è più: entrambi guardavano la riproduzione del dipinto e quello spazio vuoto, dove c’era qualcosa che sarebbe dovuto durare nel tempo e avrebbe dovuto essere tutelato, esattamente come il Colosseo o il David di Michelangelo. Ma l’inconsapevolezza e l’ignoranza gravavano ovunque, anche dove non ci sarebbero dovute essere. E a Michelone, e anche a Ulderico, restava una grande malinconia.

gvs

(in copertina, Piagentina di Telemaco Signorini)

(Fine. La prima puntata della serie si può leggere qui e la seconda qui)