Le parole del potere: Dio, famiglia e identità
Giorgia Meloni, in visita a Orban, afferma che è necessario difendere Dio, la famiglia e l’identità. Se in passato si erano fatte soltanto delle congetture – seppure mirate – sulla continuità ideale tra l’attuale governo e il ventennio fascista, ora non ci sono più dubbi: Dio, famiglia e identità assomigliano davvero tanto al “Dio, patria, famiglia” del regime. Ma davvero un presidente del consiglio che dice questa frase può essere considerato un presidente del consiglio di tutti? Forse che tutti gli italiani credono in Dio, appartengono a una famiglia rigidamente eterosessuale con prole e si sentono legati a una particolare identità? È possibile che si possano fare queste affermazioni al di fuori di un regime di dittatura? Queste sono pure e semplici parole del potere, di un potere che finalmente ha tirato fuori il suo vero volto; un potere che impone valori, ruoli sociali, e religione. E coloro che non credono nel Dio cristiano ma in qualunque altra divinità (compreso il “Quelo” di Corrado Guzzanti), oppure non credono affatto; coloro che vivono in una famiglia formata da loro stessi e basta, da loro stessi e dal cane o dal gatto, da loro stessi più una persona del loro stesso sesso, da loro stessi più un gruppo di amici; coloro che non si sentono appartenere a nessuna identità precostituita cosa dovrebbero fare? Semplicemente, dovrebbero abbandonare il paese governato da chi vuole difendere questi valori, che non sono i loro. Inutile parlare di democrazia: questo concetto è stato gettato da tempo nei pozzi neri e ormai è completamente sporco di materia fecale.
Come leggiamo in questo articolo (qui), Meloni definisce l’Ungheria come un “paese perfetto” per difendere questi valori: certo che è perfetto, è un paese in cui Orban ha fatto erigere una barriera metallica contro i migranti provenienti dall’Asia, una vera e propria ‘ferita’ nel cuore dell’Europa dopo il muro di Berlino (come la si definisce qui). Siamo comunque stati sempre convinti che la stessa Unione Europea – fin dalla sua nascita – non fosse altro che una fortezza chiusa a riccio contro i migranti da Asia e Africa. Resta però da vedere come la premier italiana possa giustificare in Europa queste sue simpatie per Orban, viste anche le simpatie dello stesso Orban per Putin. Nel frattempo, a Lampedusa la situazione è drammatica (ma la premier preferisce andare in Ungheria, la quintessenza della perfezione), si ripetono le terribili scene già viste dei naufragi dei migranti ma chi se ne importa, tanto non sono i migranti – come afferma la premier – a risollevare le sorti della natalità in Italia. Se l’Ungheria è un paese perfetto, con una recinzione metallica anti-migranti che più che al muro di Berlino ci fa pensare alle recinzioni dei campi di sterminio nazisti, allora cosa aspettiamo ad erigerne una anche in Italia? A Lampedusa? Magari in mezzo al mare dove si schiereranno navi da guerra con l’ordine di sparare a vista sui migranti? Che bel “paese perfetto”, davvero, poi quello in cui i media sono esclusivamente filo-governativi!
Resta la questione sull’identità. Ma cosa sarà mai questa sbandierata identità italiana? Che ce la spieghi, per favore: da chi ci deriva, dagli antichi romani, mescolati con miriadi di altre popolazioni? Dai greci? Dai normanni, dagli svevi, o forse dagli spagnoli, che hanno occupato svariate parti d’Italia? O forse dagli arabi? O, forse, piuttosto, dai fascisti veraci del ventennio che propugnavano una razza ariana e perfetta fino a promulgare, nel 1938, le leggi razziali? Come nota lucidamente l’antropologo e filologo classico Maurizio Bettini, il concetto di identità è sempre stato usato a scapito di altri, e contro di essi; è la smania di stabilire chi appartiene alla propria tribù e chi no e di escludere, di conseguenza, chiunque venga considerato diverso negando qualsiasi dialogo con l’alterità (si legga, ad esempio, M. Bettini, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, Il Mulino, Bologna, 2012 e Id., Hai sbagliato foresta. Il furore dell’identità, Il Mulino, Bologna, 2020).
Le parole del potere, ancora una volta, sono rigide, calate dall’alto e pesanti come blocchi di granito. Sono inascoltabili ma, in ogni caso, qui ed ora, di parole bisogna trovarne altre, da contrapporgli. Mi vengono in mente, ad esempio, quelle che Stefania Consigliere pone come sottotitolo del suo libro Favole del reincanto (DeriveApprodi, 2020): “Molteplicità”, “Immaginario”, “Rivoluzione”. Le parole sono importanti: la lotta si sposta sul piano dell’immaginario, e dovrà essere più strenua che mai.
gvs