Neoliberismo a mano armata: 45 anni fa il golpe in Argentina
L’incubo iniziò con una voce gracchiante che nelle prime ore del 24 marzo del 1976 lesse alla radio un breve comunicato: “Si comunica alla popolazione che a partire da oggi il paese si trova sotto il controllo operativo della Giunta militare. Si raccomanda a tutti gli abitanti il più assoluto rispetto alle disposizioni e direttive che vengano emanate da autorità militari, di sicurezza o di polizia, così come la massima attenzione nell’evitare atteggiamenti individuali o di gruppo che possano rendere necessario il drastico intervento del personale in servizio”.
In Argentina era il sesto colpo di Stato in meno di cinquant’anni, quindi niente di nuovo. E niente di inatteso: tutti ormai da tempo sapevano che i militari avrebbero preso ancora una volta il potere abbattendo il corrotto governo di Isabelita Martínez, la vedova di Juan Domingo Perón, morto nel luglio del 1974. Isabelita ormai era solo un pupazzo nelle mani di José López Rega, detto el brujo (lo stregone), tessera P2 n. 591, fondatore della Triple A (Alleanza Anticomunista Argentina), gli squadroni della morte che già da anni seminavano il terrore. La giunta golpista era formata dal generale dell’Esercito Jorge Videla, dall’ammiraglio Eduardo Massera, tessera P2 n. 1755, per la Marina, e dal brigadiere generale Orlando Agosti dell’Aviazione.
Il cono sud del continente americano era ormai interamente sotto il tallone delle dittature militari, dal Brasile alla Bolivia, dal Paraguay al Cile, dall’Uruguay all’Argentina. Dittature che condividevano il famigerato piano Condor, elaborato e coordinato dai servizi segreti statunitensi secondo la dottrina della sicurezza nazionale: c’era una guerra e il nemico da annientare non era un esercito straniero ma la “sovversione interna”. Questa dottrina in Argentina era stata inaugurata dieci anni prima da un altro generale golpista, Juan Carlos Onganía. Ma stavolta si passò alla “soluzione finale”: 30mila desaparecidos e un’intera generazione spazzata via. Lo chiamarono “Processo di riorganizzazione nazionale”. In Cile, tre anni prima, il colpo di Stato di Pinochet aveva spettacolarizzato la violenza e la repressione. Il mondo era inorridito di fronte alle immagini del palazzo presidenziale bombardato dai golpisti, degli oppositori rinchiusi negli stadi e delle retate nelle strade. I generali argentini avevano imparato la lezione: tutto doveva svolgersi in un’atmosfera di apparente tranquillità. “Non si poteva fucilare. Mettiamo un numero, mettiamo 5mila. La società argentina non avrebbe sopportato le fucilazioni: ieri due a Buenos Aires, oggi sei a Córdoba, domani quattro a Rosario, e così via fino a 5mila. Non c’era altro modo. Tutti eravamo d’accordo su questo. E chi non era d’accordo se ne andò. Far sapere dov’erano i resti? Ma che cosa potevamo dire? In mare, nel Rio de la Plata, in un fiume? Si pensò, a suo tempo, di rendere pubbliche le liste. Ma dopo si disse: se si danno per morti, di seguito arriveranno domande a cui non si può rispondere: chi ha ucciso, dove, come”, ammetterà molti anni dopo il generale Videla.
Il terrorismo di Stato aveva l’obiettivo di rendere possibile, “sulla punta delle baionette” la prima applicazione pratica delle teorie neoliberiste. “I risultati di questa politica – scriverà nel 1977 il giornalista Rodolfo Walsh – sono stati fulminanti: in questo primo anno di governo il consumo di alimenti è diminuito del 40%, quello di vestiario di più del 50%, e quello di medicine è praticamente scomparso nelle fasce popolari. E ci sono zone della Grande Buenos Aires dove la mortalità infantile supera il 30%, cifra che ci mette alla pari con la Rhodesia, il Dahomey o le Guayane, malattie come la diarrea estiva, le parassitosi e perfino la rabbia per le quali le cifre schizzano verso record mondiali o li superano. Come se fossero obiettivi desiderati e ricercati, avete ridotto il bilancio della sanità pubblica a meno di un terzo delle spese militari, sopprimendo perfino gli ospedali gratuiti, mentre centinaia di medici, professionisti e tecnici si aggiungono all’esodo provocato dal terrore, dai bassi salari e dalla ‘razionalizzazione’”. La dittatura terminò nel 1983 ma in Argentina ci sarebbero voluti ancora quasi vent’anni per sbarazzarsi della follia neoliberista. Altrove, invece, questa follia continua.
Immagine trata da unsertirol24
Nello Gradirà
Pubblicato sul numero 113 (marzo 2016) dell’edizione cartacea di Senza Soste