Giuliana Zeppegno, “La luce che pioveva”
L’ultimo romanzo di Giuliana Zeppegno, La luce che pioveva (L’orma, 2022), narra la vita della madre della protagonista. Possiamo anzi affermare che le protagoniste del testo sono due: la narratrice – che si configura in qualche modo come testimone di quanto accaduto – e sua madre, appunto. Il lavoro appare originale e suggestivo sin dalle prime pagine, che ne rendono immediatamente esplicita la struttura. La narrazione è infatti condotta in seconda persona: Giuliana si assume il compito di raccontare alla madre la vita che lei stessa ha vissuto, forse senza trovare mai il tempo, l’energia o il coraggio per mettere insieme i pezzi del puzzle. Senza un simile lavoro, questi pezzi rischierebbero di andare persi nel disordine cosmico.
Giuliana ripercorre dunque le tappe principali della vita di sua madre rivolgendosi a lei con un tu che colpisce in quanto il personaggio appare posto di fronte a uno specchio, fedele e insieme benevolo, capace di mettere in evidenza i lati più vitali della personalità e della biografia della donna.
Si parte quindi dalla rilettura di un’infanzia contadina, vissuta insieme a fratelli, sorelle, cugini, sotto la supervisione di genitori autoritari, con poco tempo da dedicare ai figli a causa del lavoro nei campi, che concede scarse tregue, ma tuttavia presenti con il loro affetto, la loro bonomia essenziale e schietta. Il cibo, il riscaldamento, i soldi scarseggiano ma sono comunque sufficienti affinché tutti crescano sani e forti, e trovino la loro strada nella vita. Vale per la madre della protagonista, ma anche, ad esempio, per un suo fratello maggiore che, all’improvviso, stupendo tutti, decide di abbandonare il seminario. E non è questo il solo riferimento al mondo ecclesiastico, in quanto spesso nella narrazione fanno capolino le suore, con i loro orti conclusi, magnifici giardini di fiori inaccessibili ai più, ma anche con i loro metodi educativi severi, punitivi, talvolta inspiegabilmente duri.
Si giunge poi all’età adulta, quella, per così dire, dell’emancipazione. Un lavoro in ospedale come biologa. Un marito, dei figli. Ma il quadro è imperfetto: la figura che stona è innanzitutto quella della suocera, incomprensibilmente perfida, vorace, onnipresente, ostile. Poi la depressione del marito, la sua costante paura di essere tradito, abbandonato, deriso, vittima di un pensiero ossessivo prima, di troppi psicofarmaci e medici incompetenti poi. Un abbandono del mondo del lavoro arrivato troppo presto, scelto non a cuor leggero ma per gestire una situazione familiare molto impegnativa. Ed ecco, allora, che la scrittrice sembra dirci che l’emancipazione della madre è solo apparente, e che la sua solitudine è ancora, nonostante tutto, immensa.
Il panorama che fa da sfondo è spesso montano (forse si può scorgere un’affinità con Le otto montagne di Cognetti): è luogo d’elezione del padre, vigile urbano incapace di mettere ordine persino nel proprio animo in subbuglio, e che invece sulle vette più alte sembra trovare un po’ di pace. Anche la madre impara ad amare questo scenario, e si appassiona, come il marito, alla ricerca dei funghi. Sorta di Alice senza paese delle meraviglie, la donna sembra cogliere il segreto delle piccole cose (che restano anche quando le grandi ci sono negate), il valore della conquista di ciò che è raro solo per chi non sa guardare.
Ci viene narrato il rapporto con i figli, due gemelli dal carattere diverso ma ugualmente complesso, la corsa frenetica e continua per far quadrare tutto, per far tornare tutto, per tener testa a tutti. La vita appare come un’enorme nuvola di nebbia dentro cui la donna è immersa. Si tratta di un’immagine assai significativa presentataci nel romanzo, quando ci viene descritto un rientro a casa in auto particolarmente difficile, ma che a nostro avviso può essere letta come metafora di buona parte dell’esistenza della madre. A un tratto, infatti, così come si era dissolta la nebbia, giunge la consapevolezza. Di sé, degli altri, del proprio posto nel mondo. Giunge all’età di cinquant’anni, quando questa madre dai troppi fardelli si veste ancora come una ragazzina, semplicemente perché tale si sente.
Sullo sfondo della vicenda personale, si intravede la storia del nostro Paese, che l’autrice ha lasciato sapientemente emergere in maniera sempre naturale, priva di pedanteria. Il passaggio da una realtà prevalentemente rurale a una industrializzata, urbanizzata. Il cambiamento nella struttura familiare, nel ruolo della donna, nel rapporto con la sessualità delle giovani ragazze. A questo proposito, emblematica la differenza tra la madre, che quando ha le sue prime mestruazioni, di cui nessuno le aveva parlato, crede di stare per morire, e la figlia, che festeggia con i suoi genitori la scampata gravidanza. Le baby pensioni, la politica che grazie ai talk show entra nelle case ed è alla portata di chiunque la voglia seguire, gli sperperi in ambito pubblico poi ripagati tutti con gli interessi.
In ultima istanza, sembra dire l’autrice alla madre e a tutti noi, non esistono soluzioni univoche al male dell’anima. Nel libro le lacrime cadono come la pioggia richiamata dal titolo, ma a volte sono catartiche, sono il viatico per un’insperata serenità, altre volte, invece, non sono che il simbolo di un fallimento, di una mancanza, di un vuoto. La luce, anch’essa evocata dal titolo, è ovunque e in nessun luogo, al pari della felicità. Quella di Giuliana Zeppegno ci sembra senz’altro una prova felice, assai densa di significati – più o meno espliciti – e capace di raggiungere il lettore, toccandolo nel profondo.
Per Codice Rosso, Serena Penni
Giuliana Zeppegno, La luce che pioveva, L’orma editore, 2022, pp. 168, euro 18,00.