Internazionale

Il problema dell’acqua nei conflitti medio orientali e la proposta curda

Attualmente nel mondo sono in corso decine e decine di guerre per l’acqua e molte di queste vengono considerate ad alta intensità.  Il continente africano è un esempio paradigmatico in questo senso. Intorno al  fiume Giordano è stato nel secolo scorso un susseguirsi di conflitti. Esso rappresenta un importante bacino idrico per la regione, inizia nell’Anatolia del Sud e finisce in Africa nordorientale attraversando ben 5 Stati:  Siria, Libano, Israele, Giordania e Territori Occupati dall’Autorità Palestinese. E’ tra Israele e palestinesi che la questione legata al controllo delle acque regionali si è fatta più cruenta, si pensi alla Guerra dei 6 Giorni: con essa Israele acquisirà il controllo delle risorse di acqua dolce del Golan, sul Mare di Galilea e sul fiume Giordano stesso.  La situazione qui dunque lega strettamente  questioni economiche e politiche ad altre più genuinamente ambientali, situazione centrale probabilmente per comprendere la stessa natura dei conflitti regionali. Ricordiamoci sempre che attraverso le risorse idriche si sviluppano sia l’agricoltura sia la produzione di energia, necessaria poi per industrie e servizi. Ecco che la tangibile differenza nell’accesso alle risorse idriche in queste aree si innesta in una tattica di dominazione apposita, con un impatto di carattere ambientale ed ecologico non indifferente, data la crescita demografica costante di Israele  (dovuta principalmente all’immigrazione), che spinge per esempio verso l’introduzione di coltivazioni allogene a spese di quelle tradizionali. L’espulsione dei palestinesi dalle terre ha determinato una diversa distribuzione della popolazione inoltre, con una maggiore pressione sulle risorse idriche del territorio, specie nella Striscia di Gaza. Per portare un ultimo esempio, nel 1982 la Mekorot, società a partecipazione statale israeliana, ha inglobato il sistema idrico palestinese preesistente, obiettivo mai troppo nascosto d’altronde, quello del controllo monopolistico delle risorse idriche della Cisgiordania e di Gaza. Questa breve introduzione su Israele e la sua politica espansionistica legata al controllo dell’acqua serve ad inquadrare nell’analisi bene come la variabile acqua sia determinante nel muovere gli attori politici regionali. In queste zone che vanno dalla Mesopotamia fino al Nord Africa orientale i soggetti che fanno la parte del leone sul tema dell’acqua sono sicuramente Israele, come già scritto e la Turchia. Ora, in Turchia non dovrebbero esistere problemi legati all’acqua, dato che essa ne è ricchissima (in superficie ed in profondità),facendo da bacino di compensazione per le zone vicine semidesertiche. Gli stessi Tigri ed Eufrate appunto nascono qui per poi scorrere verso Siria ed Iraq. Da questa relazione triangolare però nascono dei problemi, nemmeno poco sostanziali. Esiste un progetto, chiamato Gap, progetto di sviluppo per l’Anatolia che esiste sin dai tempi di Ataturk; le prime dighe sono state costruite infatti già negli anni ’70 del secolo scorso. Nel 1987 la Turchia presentò il Water Pipe for Peace, un accordo che prevedeva di dividere il bacino in due rami, portando l’acqua da un lato al Kuwait, all’Arabia Saudita, e dall’altro alla Siria, alla Giordania ed a Israele. Questo progetto molto ambizioso in realtà sarebbe finalizzato a condizionare la ricezione dell’acqua da parte di molti paesi confinanti, Siria ed Iraq su tutti; rendiamoci conto che nelle previsioni degli analisti un progetto del genere avrebbe tanto facilmente portato a conflitti che la stessa Banca Mondiale, soggetto di certo mai imparziale e terzo, manco puro, si rifiutò di finanziarlo. Nonostante le contrarietà varie la Turchia nel 1990 portò a termine la costruzione della diga Ataturk condizionando fortemente la ricezione di acqua da parte dei paesi confinanti. La prima diga sull’Eufrate risale agli anni ’60 e 50 anni dopo, sono sui due fiumi mesopotamici ben 140 le dighe, con altre in costruzione o in progettazione. L’attuale sistema di dighe ha ridotto di 1/3 circa il flusso acquifero in Siria e poi in Iraq. E’ chiaro dunque come la questione idrica si innesti a ragioni politiche ed economiche:  attraverso l’acqua si gioca il controllo dell’intera regione da parte della Turchia ed i territori determinanti ai fini del controllo delle risorse idriche sono abitati principalmente da popolazione curda. Proviamo allora ad avanzare una prima ipotesi: lo snodo idrico è una variabile tattica periferica, cioè locale su cui la Turchia agisce su un terreno strategico fortemente espansionistico nella regione. Il neottomanesimo come sfondo ideologico e politico di questo agire. La ripresa dunque di un forte nazionalismo turco, con Erdogan. La variabile curda, chiamiamola così, è uno snodo critico per il progetto, un momento di opposizione. Ma le ragioni specifiche e storiche di questa opposizione dove abitano? Nelle esigenze di statalizzazione del movimento curdo? Sarebbe un’ingenuità assurda esigere di leggere nei curdi una variabile orientata alla destabilizzazione del ruolo degli Stati Nazione nella regione, partendo, muovendo l’intera analisi dall’assenza di uno Stato Nazione curdo, dunque da una loro presunta pretesa statalista. Il terreno su cui si sta giocando il conflitto è quello dello sviluppismo. Il progetto neottomano predica anche una sviluppo “modernizzatore”  per la Turchia, le dighe d’altronde producono energia. La situazione sembra potere essere ghiotta per Erdogan, che può benissimo monopolizzare la gestione delle  acque, potenziando le risorse a lui disponibili e  destabilizzare contemporaneamente  i paesi confinanti con crisi idriche dai risvolti socio politici. Come spiegheremo, a breve, sia accaduto in Siria. Per concludere, i curdi non possono che avere una percezione di sviluppo differente dell’area, per le ragioni materiali della loro identità sociale stessa. Legata a quei territori che la “modernizzazione” espansionistica di Erdogan vorrebbe violare. E’ da questa opposizione tra modelli di sviluppo che nasce il conflitto tra curdi e Turchia ed è in questo contesto materiale e teorico che si apre lo spazio per il dettato ideologico ecologista, dove il ruolo dei modelli di sviluppo è determinante. Torneremo in seguito su questo tema. In Siria, come scrivevamo sopra, una crisi idrica si è generalizzata negli anni in crisi sociale e politica arrivando fino al contesto attuale. Dal primo decennio di questo secolo una siccità acutissima sta investendo il Vicino Oriente, ossia la regione che va dalle coste orientali del mediterraneo ed arriva fino all’altipiano iranico: dalla Siria all’Iran passando da Iraq e Giordania. Oggi non è azzardato dire che la siccità, con una crisi profonda sociale, abbia accelerato molto le proteste scoppiate nel 2011 fino a degenerare in autentica guerra civile. Tra il 2006 ed il 2010 la Siria venne appunto colpita da una siccità forte, con uno spostamento demografico di milioni di persone dalle aree rurali a quelle urbane. La Siria contava 22 milioni di abitanti e la metà viveva di agricoltura. Attenzione a non sottovalutare questi fenomeni che sul piano materiale appunto sono socialmente determinanti. Si pensi alle Leggi sulle recinzioni citate da Marx nel Capitale come momento di accumulazione originaria, cioè di partenza storica del conflitto capitale/lavoro. Sostanzialmente anche questo fu uno spostamento demografico da aree agricole ad aree urbane. Nel secolo scorso la Siria era uno dei principali produttori agricoli della regione. Alla fine degli anni ’80, durante il regime di Hafez al Assad, padre dell’attuale presidente, vennero fatti molti investimenti nell’agricoltura con l’obiettivo di raggiungere la cosiddetta autarchia alimentare. Fino al 2007 l’impresa è anche riuscita, con esportazione inoltre verso Egitto e Giordania. Un’impresa che però al contempo ha prosciugato letteralmente le falde idriche poiché furono arate anche molte terre semiaride. In queste zone l’agricoltura era prima bandita, a favore della pastorizia. Con nuovi pozzi il governo però decise di sostenere questa espansione. La situazione è che con il calo netto delle precipitazioni nell’area, si hanno le falde sotterranee completamente prosciugate, al momento. In Siria, nei grandi Slums cresciuti intorno alle grandi città dalla migrazione contadina, è cresciuta una popolazione giovane e disoccupata e saranno divenute esattamente quelle, nel tempo, non a caso forse le roccaforti dei ribelli. Forse non è nemmeno un caso che i primi obiettivi presi di mira dai miliziani dell’Isis siano state delle dighe sui fiumi Tigri ed Eufrate. Qui l’acqua è una variabile che conta e nemmeno poco, forse più del petrolio, a dispetto di come vogliano pensare troppo spesso gli analisti occidentali, tendenti ad esaltare l’agire politico delle super potenze esogene rispetto all’area, delle varie Russia, Usa o Ue, Cina e così via discorrendo, nella tendenza alla lettura dello scenario inquinata da elementi ideologici eurocentrici, per parlare giusto del nostro contesto. Le variabili locali però, periferiche non solo contano, ma sono bensì gli attori protagonisti delle vicende. Senza attore, non c’è spettacolo. Possono agire loro come elementi determinanti della storia? La risposta è altrettanto materiale, deve essere tale: dipenderà dalla capacità degli attori periferici di affermare i propri obiettivi strategici, in un contesto certo come quello globale attuale piuttosto olistico, scenario ad alta complessità dove un evento come una crisi economica statunitense  innesca una crisi dai contorni globali, certo per la centralità dell’economia statunitense, ma anche per le caratteristiche strutturali delle attuali relazioni internazionali, dove la Cina mentre si punta i missili nel Pacifico con gli Usa, nel contempo va a detenere il debito degli stessi Usa, legandosi economicamente ad essi. Come scrivevamo sopra, i curdi sono uno snodo centrale per Erdogan, poiché rappresentano la popolazione resistente proprio su un terreno scelto, come fondamento tattico per un obiettivo strategico, di carattere nazionalista, espansionista e neottomano. Popolazione che resiste proprio per il legame identitario istituito con le terre che servono ad Erdogan per realizzare i propri progetti. Sono i primi attori protagonisti dunque almeno sul piano dell’opposizione al progetto, i deuteragonisti. Sono coloro che difendono le terre stesse. Il progetto ecologico nasce appunto su questa esperienza storica e non potrebbe essere altrimenti, alla faccia di chi lamenta il “tradimento storico” del loro leader e teorico Ocalan. La svolta ecologica è motivata dalle ragioni storiche, sociali, dunque concrete della loro condizione materiale. Difendere un tipo di sfruttamento delle risorse idriche piuttosto che un altro, in regioni in cui l’acqua è davvero determinante significa decidere il modello di sviluppo stesso di un’intera economia, sicuramente per quella di sussistenza. Attenzione a non scadere nel mito sviluppista, relegando i curdi nel primitivismo. Qui è stata sviluppata un’ideologia che è perfettamente contestuale. Si tratta di opporsi ad un modello di sviluppo. Ed è su questo terreno che trova forza il discorso ecologico, poiché lo sviluppo non rispetta mai logiche di equilibrio, è cosa nota, o almeno dovrebbe esserlo tra analisti critici. La domanda dunque deve essere: ideologie e pratiche contestuali possono essere efficaci? Il loro obiettivo chiaro è la generalizzazione della loro esperienza . Generalizzare un’esperienza come quella potrebbe essere rivoluzionario? Perché questo è ciò che loro sostengono, ossia che dal periferico si possa incidere sulla percezione globale, si possa “generalizzare” un’esperienza cioè. E che questa esperienza possa essere di ispirazione per tutti i movimenti rivoluzionari globali, giacchè l’obiettivo strategico loro è al pari di quello di molti altri l’anticapitalismo, obiettivo negativo, pars destruens sulla quale loro hanno costruito però anche una proposta, un pars costruens, che è la loro stessa esperienza sociale definita confederalismo democratico. Tradotto? Significa anche vicinanza al territorio, dunque sensibilità politica molto acuta sul tema dello sviluppo. I grandi progetti, le “grandi opere” di cui si nutre parte del capitalismo ricadono sempre sui territori, sono qui i precipitati di questo genere di sfruttamento selvaggio. Equivale a chiudere una fabbrica delocalizzando le attività: i precipitati arrivano sempre sul territorio, nella forma della disoccupazione. E’ qui, nella vita urbana o agricola, nella nostra vita sociale cioè che si giocano i meccanismi dello sfruttamento. Lanciare al capitalismo una sfida sul piano del tema dello sviluppo, significa progettare un anticapitalismo che punti ad avere le roccaforti dei propri progetti nei territori, dove lo sviluppo arriva con tutto il suo peso dannoso e questa intuizione non da poco, partendo dalla propria esperienza storica crediamo che i curdi l’abbiano avuta.

 

DIEGO SARRI

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