Il “soggetto nomade” femminile di Céline Sciamma
Il recente film di Céline Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme (Portrait de la jeune fille en feu, 2019) delinea un percorso di liberazione sociale e politica inquadrato da una ben delineata prospettiva di genere. Siamo intorno al 1770, in una Francia in cui la rivoluzione è ancora di là da venire: la giovane pittrice Marianne (Noémie Merlant) è una donna che un suo percorso di liberazione lo ha già compiuto, ha già scardinato le regole che vorrebbero la dimensione femminile in una posizione subordinata, legata agli obblighi familiari e alle convenzioni sociali. La regista francese sceglie il Settecento prerivoluzionario per mostrare un universo classista e patriarcale ma, intendiamoci, la condizione femminile presentata nel film non è poi tanto diversa da molte situazioni della modernità e della contemporaneità, quando determinati diritti, grazie anche alle lotte, dovrebbero invece essere già acquisiti (non da ultimo, come vedremo, il diritto all’aborto); invece, oscure e intangibili dinamiche di potere che ancora oggi sussistono, ingabbiano la donna in un ruolo subordinato all’universo patriarcale. Quello delineato nel film, allora, è un percorso di lotta, anche politica e sociale, che può assumere un universale valore simbolico.
Marianne cerca, per mezzo dei suoi ritratti, di offrire la possibilità a tutti, e in primis alle donne, di essere quello che sono, quello che si sentono di essere, al di fuori della gabbia della convenzionalità sociale. La pittrice dovrà recarsi in un’isola della Bretagna per dipingere il ritratto di Héloïse (Adèle Haenel), una giovane donna appena uscita dal convento. Quest’ultima, per volontà della madre (Valeria Golino), nobile decaduta, dovrà andare in sposa a un gentiluomo di Milano soltanto dopo la realizzazione del suo ritratto in modo che il futuro sposo la possa vedere prima del matrimonio. La giovane Héloïse si trova perciò in una condizione di minorità e di subordinazione: prima costretta al convento e poi a un matrimonio non desiderato. Ma ecco che, dal mare, arriva Marianne: la pittrice si connota come un vero e proprio elemento perturbatore, quasi demonico, che giunge all’interno dell’universo ovattato in cui vive Héloïse, maggiormente caratterizzato come un mondo chiuso poiché si tratta proprio di un’isola. Per giungervi, Marianne attraversa un mare burrascoso e dovrà anche gettarsi in acqua per salvare gli strumenti della sua arte. La giovane pittrice assume quasi le caratteristiche del “soggetto nomade” delineato da Rosi Braidotti: un soggetto in divenire e contemporaneamente incarnato e situato, e quindi sessuato, in grado di pensare qualsiasi altra differenza. Secondo Braidotti, “la caratteristica del soggetto nomade è il suo essere post-identitario: il nomadismo è un processo attraverso il quale tracciamo molteplici trasformazioni e molteplici modi di appartenenza, ognuno dipendente dal posto in cui ci troviamo e dal modo in cui cresciamo”. Ponendo al centro del discorso filosofico il corpo sessuato, il femminismo – secondo l’analisi della filosofa – costituisce una vera e propria “crisi della modernità”. Il personaggio della pittrice reca in sé la marca del nomadismo, dello spostamento continuo e del movimento, il quale può assumere diverse connotazioni trasgressive. Secondo Michel Maffesoli (che riprende alcune suggestioni teoriche già offerte da Deleuze e Guattari in Mille Piani) l’erranza, come espressione metaforica della categoria del nomadismo, si contrappone alla struttura del potere, il quale è sempre sedentario e dall’alto impone le sue regole di disciplina.
La pittrice giunge nell’universo stanziale e sottoposto alle logiche di potere patriarcale in cui vive Héloïse come un personaggio nomadico e trasgressivo: quasi come il giovane dio dalle connotazioni dionisiache che annienta la famiglia borghese in Teorema (1968) di Pasolini, ella conduce la sua carica erotica e trasgressiva nel palazzo della famiglia dei nobili decaduti. Secondo gli accordi disposti con la madre, Marianne dovrà ritrarre Héloïse senza che ella se ne accorga. Se i precedenti pittori non erano riusciti a eseguire il ritratto, visto dalla giovane come l’imposizione di un potere che la costringe al matrimonio, Marianne riuscirà a caratterizzare la sua stessa creazione come uno strumento di fuga dal controllo e dalla rigidità che avvolgono il palazzo dove vive Héloïse. Una volta che la giovane pittrice è penetrata all’interno di esso, infatti, lo stesso ambiente domestico sembra assumere una nuova e inaspettata carica erotica e corporea. Spesso presente è l’immagine del fuoco che spande nelle stanze notturne una dimensione fisica ed erotica, come se la stessa casa si trasformasse in un grande corpo pulsante e fluttuante nel magma carnale dei bagliori della fiamma. Onnipresente è anche il rumore dei pavimenti di legno percorsi dalle due ragazze, come se lo stesso palazzo iniziasse a respirare in un nuovo dinamismo offerto dalla passione. Nei momenti in cui la madre si assenta dal palazzo, quest’ultimo diviene il luogo dove può finalmente liberarsi una femminile carica trasgressiva: se già una trasgressione è legata alla passione travolgente che investe le due ragazze, una nuova forma di ribellione viene liberata nel momento in cui esse decidono di aiutare la giovane cameriera ad abortire. Viene così messa in pratica una forma di resistenza all’universo patriarcale e cattolico in cui versa la società dell’epoca e non solo: la lotta per il diritto all’aborto è infatti da sempre stata uno degli elementi cardini dei movimenti femministi contemporanei. La stessa ambientazione dell’isola diviene un universo femminile dove la forza trasgressiva di liberazione dalle regole patriarcali è costantemente associata al fuoco, come nella scena intorno a un falò, in cui un gruppo di donne innalza un canto polifonico che diviene quasi una escrescenza sonora della corporeità del fuoco. Ed è proprio qui che Marianne prenderà spunto per un altro suo ritratto, quello della “giovane in fiamme” (un lembo della veste di Héloïse prende fuoco), simbolo della passione ma anche di un processo di liberazione e di resistenza simboleggiato dal fuoco.
Gli interni del palazzo – nuovo corpo che pulsa e respira di volute infuocate – assumono anche un’importante dimensione mitica. Héloïse legge a Marianne la storia di Orfeo e Euridice tratta dalle Metamorfosi di Ovidio e la stessa immagine della giovane nobile si trasforma quasi nello spettro di una nuova Euridice che appare a Marianne nei corridoi notturni solcati dai bagliori del fuoco. Il mito è fondamentalmente parola, racconto e la forza stessa della parola mitica appare come uno strumento di resistenza: sarà proprio sul libro di Ovidio che, a pagina 28, Marianne vergherà il proprio ritratto da regalare come un ricordo a Héloïse. Assieme al fuoco che, caravaggescamente, trasforma gli interni del palazzo in una pittura divenuta corpo, anche la musica riveste un ruolo fondamentale nel film. Anche la musica è eros, è corpo, è movimento continuo che pare sfuggire alla rigidità stanziale del controllo: la bellissima inquadratura finale che mostra il primo piano di Héloïse con l’esplosione in sottofondo dell’Estate di Vivaldi è il ritorno di una dimensione mitica che forse si credeva perduta. Marianne, dopo diversi anni, rivede da lontano, senza essere vista (lo sguardo è un altro elemento assai importante nel film) la sua giovane amante in un teatro di Milano, ormai divenuta sposa e madre. La musica è corporea cadenza del ricordo e del desiderio, di quando la stessa Marianne aveva suonato quel pezzo musicale al clavicembalo mentre Héloïse leggeva la storia di Orfeo e Euridice. La musica è allora appendice del mito, di una dimensione mitica che, forse, rimane come un importante elemento di resistenza in sottofondo. Marianne, andando via, si era voltata a guardarla come Orfeo aveva fatto con Euridice, compiendo ancora un atto di ribellione all’imposizione di non voltarsi, facendola precipitare nell’inferno delle convenzioni sociali. Eppure, l’atto del voltarsi è anche una estrema ribellione condivisa (anche Héloïse desidera essere guardata) in nome della passione: preferisco guardarti ancora e adesso, per mezzo di uno sguardo che diviene carezza e ferita, piuttosto che aspettare e, forse, non vederti più. L’immagine finale, allora, è qualcosa di più di un volto condannato all’inferno delle convenzioni sociali: è la nuova apparizione mitica di un corpo guardato dalla nomadica e trasgressiva Marianne, è la sua passione perduta ma è anche il viso di chi, nonostante tutto, è riuscita a resistere, nella profondità del suo io, a quelle stesse convenzioni. Se queste ultime, alla fine, sono riuscite apparentemente a piegarla, ella sembra non aver mai dimenticato la sua passione e il suo percorso di resistenza che tenacemente sopravvivono sopra uno sfondo musicale mitico e corporeo.
Guy van Stratten
Riferimenti bibliografici:
Rosi Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, Roma, 1995.
Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. Castelvecchi, Roma, 2010.
Michel Maffesoli, Del Nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, trad. it. Franco Angeli, Milano, 2007.