“Kinds of Kindness”: quell’oscuro desiderio di prigionia
Kinds of Kindness (2024) di Yorgos Lanthimos appare come un potente apologo sul potere: in ognuno dei tre episodi incontriamo individui che vengono respinti e allontanati da una situazione di prigionia e di controllo che però si trasformano in blandizie e ‘gentilezza’, se pensiamo alla “kindness” del titolo. Una situazione di cui tutti i personaggi non riescono a fare a meno e nella quale desiderano tornare volontariamente. Possiamo chiederci allora come e quanto le varie forme di potere, di violenza e di prigionia si trasformano in “gentilezza” e piacere a tal punto da essere desiderate, anche nella vita di tutti i giorni. Lanthimos torna a sondare gli oscuri interstizi delle psicologie degli individui e delle strutture di potere che gravano sulla società, come già aveva fatto, ad esempio, in Dogtooth (2009) o in The Lobster (2015).
Il film è costituito da tre episodi nei quali campeggiano due grandi interpreti che avevamo già incontrato nel precedente Povere creature!: Emma Stone e Willem Dafoe, affiancati da altrettanto bravi attori. Nel primo episodio, il personaggio di Robert dipende in tutto e per tutto dal suo capo Raymond, che controlla metodicamente la sua vita. Quando, dopo molti anni, decide di affrancarsi dal controllo e dalla prigionia sociale in cui lo costringe, è attanagliato da rimorsi di coscienza e non può fare a meno di staccarsi. Ci si può chiedere quanti dispositivi di controllo, nella società contemporanea, agiscono in questo modo costrittivo e ‘paternalistico’: il controllo, infatti, oggi appare un piacere, una gentilezza, e non è più subordinato agli orrori della modernità. Se non possiamo fare a meno di uno smartphone o di un’automobile superaccessoriata, dotata di tutte le app di sicurezza, dobbiamo anche tenere conto di una pervasiva sorveglianza della nostra esistenza. Anche gli apparati di potere dei governi controllano i cittadini con il bastone e la carota, con un paternalistico ‘per il tuo bene’: basta solo pensare al truce periodo dell’emergenza Covid.
Nel secondo episodio, il poliziotto Daniel è convinto che la moglie Liz, reduce da un naufragio, sia un’altra persona. È allora Liz a dipendere completamente dalla volontà di Daniel, fino ad autoamputarsi un dito o a estrarsi un organo e uccidersi per compiacergli: viene in mente la Ballata dell’amore cieco di De André (…. Se mi vuoi bene… tagliati dei polsi le quattro vene..). E, chissà, forse si tratta di un oscuro potere psicologico di cui sono vittime molte donne all’interno di una società patriarcale come quella contemporanea, italiana (e sud-mediterranea? Non dimentichiamo che l’autore del film è greco) in particolare, dove pesanti sono ancora le incrostazioni di matrice fascista per quanto riguarda l’universo familiare. Vi è poi il tema del doppio, un doppio di Liz che compare nel momento in cui si uccide l’altra Liz, e allora forse inizierà un periodo di sconvolgimenti mentali ancora peggiori per l’inconsapevole Daniel, echeggianti un film come Solaris o una serie TV come Katla, ma di più non ci è dato sapere.
Nel terzo, infine, è Emily a dipendere dall’universo ristretto della setta a cui appartiene e non riesce a districarsene. Non vogliamo svelare di più sul film, anche perché è necessario scoprirlo passo per passo, e sentire riecheggiare nelle sequenze tutta l’atrocità che si cela nel nostro quotidiano. Perché è proprio qui, nella quotidianità più scontata, che si celano le blandizie del potere, dei suoi doppi e tripli legami, dei nodi che esso impone senza che nessuno se ne accorga, della bella prigione quotidiana e dorata che avvolge gli individui. L’atrocità e la follia, i legami malati ed autoreferenziali si nascondono dietro ogni angolo: i peggiori sono quelli che il potere impone con il suo implacabile sorriso funereo stampato sulle labbra.
Per Codice Rosso, Guy van Stratten