Comunicazione e culture

Memoria, quartieri, cemento e fumi: se Il mare non bagna più Livorno

70 anni fa nel 1953 è stato pubblicato “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese. Il libro nacque dall’incontro della scrittrice con quella città uscita a pezzi dalla guerra (un incontro che fu insieme un addio: a Napoli la Ortese non tornerà, in seguito, praticamente mai). “Il libro racconta di uno spaesamento. La città ferita e lacerata diventa infatti uno schermo sul quale l’autrice proietta ciò che lei stessa definisce la propria «nevrosi»”: una nevrosi diffusa, una impossibilità di accettare il reale e la sua oscura sostanza, la cecità del vivere, un orrore del tempo che ogni cosa corrode e divora, la cruda e difficile vita familiare di interi quartieri, l’oro a Forcella del Monte di Pietà e la città involontaria, casermoni, senza luce e acqua, dove il sole e il mare di Napoli non riescono ad arrivare mai.
Livorno non è certo quella Napoli ma ci sono momenti in cui il mare, inteso come apertura, sogno, memoria e futuro non sembra più bagnare il suo litorale nonostante le infradito, il Cacciucco Pride e quell’estate più lunga del mondo…
Da una passeggiata attraverso le Officine Storiche da poco inaugurate a Livorno alcuni dei molteplici piani che ci circondano sembrano delinearsi chiaramente nella nostra città.

Cantiere e memoria

 

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Prima di entrare nelle Officine Storiche, proprio alla porta del ex cantiere Orlando possiamo leggere una scritta in ricordo dei “generosi combattenti della libertà e di coloro che affrontarono a viso aperto le asprezze del carcere fascista”. Da lazzaretto a cantiere importante, a quelle lotte sindacali e politiche e a mille episodi di resistenza che erano state parte decisiva e costitutiva della realtà di Livorno a questo nuovo Centro Commerciale di marchi famosi e di noti costruttori. Oltre quella scritta e quei ricordi sbiaditi bisogna ripensare la memoria collettiva e chiedersi dove sta andando Livorno. Fare inchiesta nuovamente sul reddito reale pro capite, sul lavoro vero e indeterminato che esiste in città, sui progetti innovativi e sulle nuove tecnologie, sul lavoro nel settore turismo e ristorazione, sulle case popolari, sul ricorso alla sanità pubblica e privata, sulla natalità e sui dati delle nuove generazioni, sulle pensioni che hanno permesso, finora, di reggere il declino di questa città, su scuole e asili e tutto quell’insieme culturale e sociale che costituisce linfa vitale per un futuro necessario. Ripensare la memoria significa considerare la storia con i suoi molteplici processi e le sue indecorose narrazioni.
Ripensare i luoghi significa ripensare lo spazio pubblico come componente cruciale della memoria collettiva.
In questo momento storico la memoria di un evento decisivo, quella di una lotta operaia o di un movimento reale e intenso, diventa invisibile, una storia raccontata da ombre del passato ormai scomparse e facilmente modificabile e plasmabile, soprattutto in questa era dominata dalla velocità e dalla immediatezza dell’informazione. La memoria digitale oggi rappresenta un serio problema che andrebbe affrontato politicamente, culturalmente e tecnologicamente. La memoria collettiva, inserita in questo insieme liberista, dominato da spettacolo, consumo e uso sfrenato di piattaforme e algoritmi, non può mai diventare riflessione profonda, viva e sofferta del nostro essere. Al momento nessuna targa ricordo servirà ad arrestare questo declino inesorabile dei nostri spazi pubblici e di quella memoria che  richiede rispetto e futuro.

Brand e spazi

 

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Da Amazon a Google, da Apple a Microsoft, fino ad arrivare ai grandi marchi di abbigliamento e fast food che invadono le nostre città ormai da decenni. Come Primark che si è preso una bella porzione delle Officine Storiche e che assumerà fino a 80 persone.
Primark è un marchio irlandese specializzato nella vendita di abbigliamento che fa parte del gruppo Associated British Foods, la cui proprietà è della Wittington Investments, una holding privata inglese che per il 79% appartiene alla Garfield Weston Foundation, una fondazione di beneficenza che eroga sovvenzioni con sede nel Regno Unito. Da una fondazione inglese a Porta a Mare il passo è breve. Ma di fronte a queste processi finanziari di una potenza incalcolabile che arrivano dove e quando vogliono, una delle domande che David Forster Wallace farebbe è: “beh e adesso che facciamo?” E la politica cosa deve fare?
Voglio dire: che tipo di azioni intraprendere, quali progetti porre sul tavolino, da che parte stanno le nuove generazioni di fronte a questi onnipotenti brand, quale soggettività contrapporre a questi processi economici irrefrenabili? E come crescere qui dentro, con la scuola ridotta ad azienda marginale, con i nostri profili inseriti in algoritmi e big data? Forse siamo volati tutti via, invisibili e inermi, come nella città di Crisopoli che Guido Morselli descrive nel suo Dissipatio H.G., dove tutto finiva per essere discriminato secondo codici rigorosi e molteplici creando un vuoto deserto sociale.
I brand e le piattaforme fanno esattamente questo: costruiscono soggettività in grado di incontrarsi sotto una determinata categoria. “In questo modo i brand costruiscono veri e propri soggetti da espropriare molto più di quanto non succhino dal furto dei nostri comportamenti trasformati in dati.
Michel Foucault aveva visto nella direzione giusta con la teoria della soggettivazione di cui solo oggi si manifesta completamente la portata: i soggetti non preesistono alle pratiche che li configurano, ma queste sono condotte dei soggetti che contribuiscono a creare.”
(Cory Doctorow and Rebecca Giblin – Chokepoint Capitalism)

Dal brand alle nuove generazioni.

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Le città hanno segnato una svolta nell’evoluzione della specie umana perché “la loro nascita implica un substrato di tecnologie, il balzo definitivo non può che tendere alla città pura, alla pura tecnologia, al puro agglomerato, a una espansione digitale”, a una serie di segni e comportamenti imposti in contrasto con la povertà e il degrado della nostre periferie, del mondo e delle città occidentali. Il che non vuol dire che il nostro futuro sia quello di venire soppiantati da una grande macchina neo liberista che provvederà a redistribuire ricchezza e conoscenza.
Un ripensamento del nostro modello di vita diventa obbligatorio: da un brand vissuto, desiderato, onnicomprensivo e moltiplicato nelle nostre vite reali al futuro che ci aspetta esiste un filo rosso sottile, invisibile, un legame indissolubile e profondo che non possiamo più non vedere. Quel consumismo sfrenato indicato da Pasolini come il peggiore dei fascismi possibili e quel potere che circola ininterrottamente dal basso nelle nostre vite, mettendo a regime ogni secondo della nostra vita, supera le peggiori previsioni di Michel Foucault. Noi, in questo momento, siamo Amazon, Google, Tesla, Starbucks: in questo senso “i nostri comportamenti sono sovradeterminati dalle tendenze dei macroprocessi tecnici ed economici massificati”
(Benasayag M. Cany B. – Corpi viventi). Il futuro delle nuove generazioni e delle nostre città, a Livorno come a Napoli, esisterà solo nella misura in cui saremo in grado di assumere le biforcazioni che si dischiuderanno di fronte a noi. In questa battaglia decisiva intorno al futuro saranno necessari nuovi saperi, conoscenze, connessioni, tecnologie, condivisioni e un noi collettivo che manca da troppo tempo ormai.
Un ruolo fondamentale all’interno di questo passaggio fondamentale, strutturale e antropologico, nelle nostre città e nelle nostre società, sarà quello dei giovani, categoria offesa e usata da quella stampa inutile di questo tempi con termini come choosy, fannulloni, amanti del divano e molto altro ancora. Di fronte alle notizie internazionali di questi giorni, pensando al conflitto tra Israele e Hamas e a tutte quelle generazioni il cui futuro è realmente negato sono fondamentali le parole di Scott Atran sullo jihadismo giovanile soprattutto sul che fare di fronte a questo aderire da parte dei giovani al progetto della lotta armata: tre condizioni fondamentali per il loro essere
* IDEALISMO La prima condizione: offrire ai giovani qualcosa che li faccia sognare, un significato che possa dare alla vita attraverso lo sforzo e il sacrificio
* REALIZZAZIONE La seconda condizione: offrire alla gioventù un sogno positivo e individuale con una concreta possibilità di realizzazione.
* OPPORTUNITA’ La terza condizione: offrire ai giovani l’opportunità di creare le proprie iniziative locali. Le ricerche sociali indicano che le iniziative locali, nate con una partecipazione in scala ridotta, sono meglio dei programmi nazionali, su vasta scala, per ridurre la violenza.

Il quartiere di fronte

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Per capire meglio le grandi trasformazioni in atto in un città bisogna chiedere ai loro quartieri e alla gente che ci abita. Nel progetto così chiacchierato in questi giorni, al di là delle polemiche sterili, bisognerebbe chiedersi quanto reddito ha prodotto, quanti posti di lavoro, quali esistenze ha modificato, in quale insieme culturale si è inserito, come e se ha modificato in meglio la vita degli abitanti del quartiere di Borgo Cappuccini: traffico, emissioni e inquinamento acustico in aumento, i pochi negozi rimasti che si trovano un ulteriore concorrenza e molto altro ancora. Siamo ancora lontani da quel processo partecipativo in cui ogni cittadino di una zona riesce davvero a sentirsi parte costitutiva di un progetto economico, sociale e culturale del proprio territorio. In termini di sicurezza, dopo un massivo bombardamento mediatico nazionale e locale su furti, rapine e violenze varie, l’unico rimedio è rappresentato dall’esercito nelle strade… Non si vuole negare l’esistenza di una situazione di degrado reale nei vari quartieri della città ma è proprio l’assoluta incapacità e volontà dell’amministrazione di ripensare la sfera economica, sociale e culturale del nostro territorio e di sviluppare una politica di nuovi saperi e di confronto/collaborazione con altre realtà europee e mondiali che ci porta allo stallo attuale, uno stallo che può produrre danni irreparabili per molti decenni.
Altro che città europea: i quartieri del centro e della periferia sono lasciati alla deriva dai grandi processi economici internazionali e delle convivenze con la politica locale che ha smesso di essere politica profonda e radicata nel territorio da molto tempo ormai.
Altro che percorso partecipativo: “in realtà lo spazio di una città non è solo un prodotto, e quindi una posta in gioco dello scambio economico ma un mezzo per stabilire ed espandere le pratiche di commoning” (Stavros Stavrides – Spazio comune)
“Il comune non è dato, ma costruzione. Il comune è una produzione pura di corpi articolati, un insieme di processi in divenire” (Benasayag M. Cany B. – Corpi viventi)
E i bambini di questi quartieri? Dove giocano? Che percorsi fanno nei loro quartieri? Riescono ancora a esplorare insieme le vie e le piazze del vicinato? Colin Ward ci dice chiaramente che “la città è di per sé un ambiente educativo e si può usare la città per educarsi, che si impari grazie alla città, su di essa, che si impari a usarla, controllarla o trasformarla.” Abbiamo bisogno di cambiare le nostre città, ma le grandi trasformazioni urbane, in atto a partire dagli anni 60, con le accelerazioni provocate dalle ristrutturazioni economiche, sociali e culturali degli anni 80 hanno prodotto una vero e proprio deserto in termini di relazioni sociali, essere insieme e “comunità inconfessabili” necessari alla crescita di ogni individuo, in particolare dei bambini. I luoghi non luoghi di Augè, come i supermercati, i centri commerciali, le autostrade, gli aeroporti sono luoghi che non hanno favorito la relazione umana e soprattutto il crescere e il vivere insieme. Il tempo digitale attuale, con social, piattaforme e applicazioni varie, ha trasformato ormai antropologicamente, il nostro modo di essere

Cemento, Fumi e Comitati

 

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Ieri 18 novembre c’è stata  una manifestazione a Livorno contro il consumo selvaggio del suolo, dal comunicato degli organizzatori  possiamo leggere: “Lo scorso 2 Novembre la Toscana è stata colpita da una violenta alluvione che ha causato diverse vittime e ingenti danni sui territori.
Su Livorno, oltre le enormi piogge si sono abbattuti tempeste di vento e incredibili mareggiate che hanno comportato problemi in vari quartieri della città compreso il crollo di 300 alberi.
Non abbiamo assistito a un’altra tragedia solo perché la pioggia caduta è risultata inferiore rispetto al 2017.
La crisi climatica che stiamo vivendo rende sempre più frequenti gli eventi climatici estremi. Si passa da temperature medie al di là della norma, a piogge particolarmente frequenti e intense, fino a lunghi periodi di siccità.
Sia a livello nazionale che a livello locale, le misure che sono state prese negli anni e che vengono prese oggi, non tengono minimamente conto delle cause del cambiamento climatico.
Mentre il governo Meloni ha tagliato i fondi per il dissesto idrogeologico, a Livorno, il Sindaco Salvetti e la sua giunta hanno da poco approvato uno scellerato piano strutturale che prevede la cementificazione di ampie aree verdi della città, anche in zone che sono già sensibili al rischio idrogeologico.
Livorno, che ha vissuto la tragedia dell’alluvione, doveva diventare un esempio della permeabilità. Invece il sigilla mento del suolo prosegue senza sosta, nel centro come nelle periferie, e le vasche di espansione dei rii sono state addirittura ridotte.
È fondamentale una vera cura e messa in sicurezza dei territori.
Deve finire la visione di chi mette il profitto al centro di tutto e pensa che la natura e le sue terre siano solo da sfruttare per gli interessi di poche persone.”
Dalla cementificazione selvaggia del suolo ai vari progetti di Porta a terra, Nuovo Centro e Porta a Mare , centri commerciali e spazi di vita, suolo e territorio non si intravedono cambiamenti decisivi.

Come se non bastasse il consumo di suolo, da Porta a mare con uno sguardo aperto verso il porto di Livorno si possono notare sempre delle navi da crociera o dei traghetti che sostano, arrivano o partono, con il loro carico profondo di turisti, cibo, auto, operatori di bordo e molti fumi appresso.
Eppure nonostante il lavoro ottimo e costante di un associazione come Porto Pulito Livorno la politica della città sembra non curarsi di questi fenomeni e dei relativi dati forniti; anzi viene sempre portata avanti la scusa di sempre: sì, forse, ma portano lavoro. In questo senso Alessandro Leogrande ci aveva avvertito del pericolo del binomio posti di lavoro / ambiente sano come se fosse una contraddizione senza uscita. Queste le sue ultime parole: “Elaborare un nuovo nesso tra ambiente e città, interpretare la nuova questione operaia, disegnare un nuovo piano del lavoro, ridurre le diseguaglianze, parlare di ecologia su scala globale sono tutte facce dello stesso problema. Città per città esso andrebbe affrontato per evitare di trovarsi in un ambiente che si spegne lentamente.”
Altra questione importante è quella dei comitati. I comitati cittadini spesso nascono, a volte con iniziative lodevoli, per esigenze legate alla vivibilità del quartiere o della città (degrado, traffico, parcheggi, antenne satellitari). Ma nella maggioranza dei casi i comitati rimangono fini a se stessi in quanto non contribuiscono a una reale crescita dell’insieme cittadino, privilegiando singole battaglie, spesso importanti, ma slegate da un processo politico e sociale che metta in discussione i concetti di lavoro, ambiente, reddito, partecipazione, immaginario collettivo, orizzonte di senso, spazio cittadino, tempo di vita e senza quei legami con gli interessi individuali e clientelari che hanno invece caratterizzato la politica nelle nostre città. I comitati, i gruppi, e le comunità in generale spesso “non riescono a superare i propri confini ma i mondi del communing sono mondi in movimento, nodi spaziali attraverso i quale la città può tornare a essere uno spazio cruciale della politica, intesa come processo aperto attraverso i quali le forme dominanti di convivenza possono venir messe in discussione e trasformate” (Stavros Stavrides – Spazio comune)
Si tratta ancora una volta di ripensare un’altra città, un altro modello di riferimento, un’altra utopia, un altro mare…

“Ci è necessaria un’utopia, oggi la coscienza utopica è invisibile: essa alimenta una denuncia infinita, il funzionamento delle nostre società dovrebbe essere diverso da quello che è…L’utopia richiama non tanto lo spazio ma il tempo, il rapporto con il tempo
il tempo come creazione, come novità, il tempo è l’altro della ripetizione
e ogni città è abitata dal paradigma della città ideale.”
(Utopia e modernità – Marcel Gauchet e Robert Redeker)

Coltrane59

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