“Milano di Merda – La pelle come altare e come Abisso”
Potrebbe partire di qui un breve discorso a proposito del romanzo di Alessandro “Kresta” Pedretta Milano di Merda, uscito da poco per i tipi di Agenzia X di Milano: il sacro e il profano che si pongono insieme sulla pelle del tossico, non in senso metaforico ma da prendere assolutamente alla lettera, perché, ovviamente, il fulcro di qualsivoglia narrazione “tossica” è il momento in cui la roba passa sotto l’epidermide dell’eroinomane per entrare in vena, per generare “piacere passando dal dolore” di una puntura, come qui grida un immaginario Dio che specifica “E poi ancora dolore, piccolo stronzo tossico”.
E’ una premessa divina, di un Dio profondamente umano – in quanto a ira e vendetta promessa – com’è quello del Vecchio Testamento, che pretende sottomissione e sacrificio da parte dei suoi disfatti adepti. Milano di Merda, quindi, non sarà il Vangelo dei Tossici, ma piuttosto una narrazione di un Esodo senza meta, vissuto ispirandosi a un’ Ecclesiaste degna del predetto Dio dei Tossici, Dio senza misericordia per adepti senza Fede, tranne che nell’effimero momento del Flash salvifico offerto dalla gnugna.
Nel libro Il protagonista, che ha il nome e il mestiere reale dell’autore, si sposta tra due piani temporali, ambedue segnati da un diverso genere di quête, altrettanto vane ambedue in un certo senso: la ricerca di un amico intravisto in stazione, dove lavora il protagonista adesso, uscito dalla dipendenza, che diventa un pretesto per mettere in fila una serie di volti e luoghi della Milano tossica del suo passato di dipendenza, in cui la ricerca dell’Uomo (per dirla con lo Zio Lou Reed) serve a disegnare, sullo sfondo delle storie di fattanza, un affresco di umanità devastate in mezzo alla città del denaro e della modernità; Il passato tossico del protagonista, che si fa relitto tra i relitti, non per portare messaggi, né la buona novella, né per – non sia mai – giudicare, riemerge quindi per sprofondare tutti quanti, noi lettori compresi, nel lato oscuro della Strada. Ho usato non a caso il termine qui sopra, non semplice ricerca, ma quête, la vana ricerca dei cavalieri antichi, che, con questi abitatori di una Milano senza luci e con le pere al posto del bere, hanno in comune anche l’uso delle spade, arma rivolta contro se stessi da parte dei primi, contro gli infedeli dai secondi. Trovare la roba è inutile, quando accade, non basta mai e dura quindi sempre troppo poco, la ricerca è quindi senza fine; mentre a trovare gli amici si rischiano – come accade qua- delle amarissime delusioni, assai indicative, però del momento in cui viviamo, in un mondo in cui la devianza tossica viene tranquillamente riassorbita dal Sistema, che riduce tutto alla misura del Denaro e del Potere, uniche divinità trionfanti del III millennio, a cui tutto si sacrifica e in nome delle quali tutto si può perdonare.
Troverete in questo discorso sofferto e insieme glaciale, i rivoli lessicali dei venerati guru letterari di Pedretta, ovviamente Bill Burroughs e Louis Celine, maestri estremi di cinismo, devianza e disarticolazione linguistica, ma io ci ho visto anche le immagini di un cinema maledetto e minore che non so quanto possa appartenere all’autore, ma che ho immediatamente immaginato leggendo queste righe: per prime le sequenze allucinate di “Amore Tossico” di Claudio Calligari, oltre all’orrore periferico industriale di “Tunnel” di un maestro di B- movie come Massimo Pirri, figlio di un diverso e antico underground, che attinge spesso però a un immaginario Weird simile a quello in cui abitualmente pesca il Pedretta autore. Un mondo forse un po’ diverso da quello descritto in “Fuori vena” di Tekla Taidelli, nonostante quest’ultima produzione visiva condivida molti dei luoghi fisici milanesi descritti in Milano di Merda, ma non l’atmosfera plumbea, il pessimismo radicale, la descrizione a tratti ossessiva dei corpi disfatti e devastati dalle sostanze, l’insistere sui dettagli corporali, il sangue, il pus, le secrezioni, le malattie della pelle, le cicatrici, la concreta rappresentazione per nulla figurale di un corpo sociale sfregiato e sofferente, senza ormai più residue speranze.
“Quando ci si inietta il vuoto, non si pensa alla morte, in quell’attimo siamo noi stessi la morte”
Falco Ranuli