Un cinema contro la working class
Se esiste la letteratura – e, per certi aspetti, anche un cinema – working class, è vero che esiste anche un cinema contro la working class. Un chiaro e limpido esempio ne è il recente Il ritorno di Casanova, adesso nelle sale, con la regia di Gabriele Salvatores. La storia si incentra sulla crisi più esistenziale che artistica di un famoso regista cinematografico, Leo Bernardi, interpretato da Toni Servillo (un attore che, se pur bravo, imperversa un po’ troppo nel cinema italiano contemporaneo), innamorato di una ragazza molto più giovane di lui. Una crisi che, rappresa in una elegante fotografia in bianco e nero, vorrebbe scimmiottare quella di Guido (Marcello Mastroianni, mica Servillo, eh!) in 8 1/2 (1963) di Federico Fellini. Ma Salvatores appare in ritardo di sessant’anni rispetto alla situazione socio-politica denunciata da Fellini: l’alienazione dell’individuo, l’impasse artistico-culturale, lo stravolgimento creato dal boom economico e dal consumismo. Quella contemporanea descritta da Salvatores è una società ormai completamente pacificata con questi elementi di crisi; una società, passata attraverso i catastrofici ‘disimpegni’ degli anni Ottanta e Novanta, in cui la crisi che negli anni Sessanta era ai suoi albori è diventata ormai la norma. Patetica suona perciò la depressione esistenziale del ricchissimo Bernardi che, quando non si fa scarrozzare sulla sua Mercedes da ottantamila euro, appare chiuso nel suo lussuoso e digitalizzato appartamento “smart” nel quale i sofisticati strumenti elettronici gli si rivoltano contro, dall’aspirapolvere-robot alla tazza del cesso (sembra di vedere uno degli episodi della serie d’animazione Love, Death & Robots, in cui una smart-house si ribella all’anziana e ricca proprietaria), specchio della sua depressione e apatia.
Ma veniamo dunque agli elementi anti-working class del film. Il ricco Bernardi si innamora di una ragazza ventenne che fa la “contadina”. Il primo incontro avviene in un campo dove il regista sta facendo dei sopraluoghi per girare il suo film dal titolo Il ritorno di Casanova, che si ambienta nell’universo dell’aristocrazia settecentesca. La ragazza sta guidando un trattore e si blocca di fronte alla figura di Bernardi, fermo in mezzo al campo. L’universo contadino italiano, ormai rappreso nel circuito industriale e negli allevamenti intensivi, viene appiattito e quasi devastato una seconda volta dallo sguardo ‘superiore’ del regista. Egli guarda alla “contadina”, che sembra una top model, con un occhio puramente erotico ed estetico, immobilizzandola nel cliché del suo ruolo di donna (giovane) e di working class (la tuta della ragazza è più che linda e la sua capigliatura appare come se fosse uscita dal parrucchiere e non dal trattore). Quest’ultima viene incapsulata in una visione estetica ed estetizzata, estremamente lontana da qualsiasi parvenza di realtà. La dimensione di lavoratrice della ragazza è prigioniera di quella stessa fotografia in bianco e nero intenta soltanto ad ‘estetizzare’ e ad allontanare dalla realtà. Talmente prigioniera fino a mostrarcela elegante e in tacchi alti su una spiaggia del Lido di Venezia, dove si era recata per assistere alla prima del film di Bernardi. Nella realtà, un baratro separa l’universo alto-borghese di Bernardi, il suo lussuoso appartamento, i salotti romani, le passerelle alla mostra del cinema di Venezia da quella classe lavoratrice intenta a dissodare zolle in terreni ‘ipermeccanizzati’ fra autostrade e tangenziali della Val Padana oppure chiusa in capannoni industriali dove le mucche vengono ammassate l’una accanto all’altra come oggetti di consumo.
Perciò, lo sguardo del regista è incapace di andare al di là di questo immenso baratro. Egli guarda alla sua amante contadina come l’attuale sinistra radical chic guarda alla classe lavoratrice. Il PD di Elly Schlein, al pari del regista Bernardi, conosce solo ricchezze e case di lusso, autocompiacimenti pseudo-intellettuali e depressioni esistenziali, sapendo ben poco di ciò che avviene nell’universo della working class contemporanea, preda di una sempre maggiore precarizzazione. Se in La dolce vita (1959) di Fellini, le scorribande di Marcello Rubini nelle periferie romane erano spesso attorniate da pastori e dai loro greggi di pecore che si spingevano fino alle porte dell’elegante capitale, adesso quell’universo contadino appare completamente relegato al di fuori delle smart cities contemporanee, chiuso nelle sue riserve dove l’agricoltura e l’allevamento assomigliano sempre di più all’industria digitale della microelettronica.
Inoltre, perdura il mito di Peter Pan in versione antifemminista. Un ultrasessantenne ha la miracolosa capacità di far innamorare una ventenne. Vero è che si chiede il perché, ma il fattore “soldi e fama” non gli viene in mente; pensa solo alla sua faccia floscia, come Casanova nel film che Bernardi sta girando. Ma Casanova paga per andare a letto con la contadina giovane, mentre l’anziano regista è oggetto di un amore insperato e genuino che ha davvero del miracoloso come solo succede nelle favole pubblicitarie propinate dai media.
Per Codice Rosso, Francesca Fiorentin e Guy Van Stratten