Visioni

“Athena”: quando la rivolta degli ultimi diventa un poema epico

Quando si è sempre gli ultimi, quando si è sempre vittime di qualsiasi potere, abbandonati, emarginati, problematizzati come una piaga endemica di teppismo e violenza da parte di politici più o meno populisti – una piaga risolvibile solo con la forza, per mezzo della polizia e delle pratiche di militarizzazione del territorio – ci si può trasformare in guerrieri rivoltosi dal respiro epico o tragico? Se guardiamo Athena (2022) di Romain Gavras (figlio del regista Costa-Gavras), presentato in concorso al 79° Festival di Venezia e trasformatosi successivamente in un film Netflix (a discapito della forza plastica delle immagini), si potrebbe pensare di sì. Cerchiamo di focalizzare la struttura della trama, presentandola nel modo più scarno possibile: siamo in una banlieue parigina e un suo abitante, un giovane di origine nordafricana, viene ucciso, forse da alcuni agenti di polizia. Ma non lo sappiamo con precisione: circola infatti un video in cui si vede un gruppo di persone in divisa che uccide il ragazzo. Il fratello dell’ucciso, Karim, grida vendetta e guida un gruppo di abitanti della banlieue all’assalto di una stazione di polizia. A questo punto scoppia la rivolta: Karim e altri giovani si asserragliano nel loro quartiere fronteggiando la polizia in assetto antisommossa. D’altra parte, gli agenti affermano che la polizia non c’entra nulla, che si tratta di un gruppo di estremisti di destra che, travestiti da poliziotti, hanno ucciso il giovane per seminare il caos.

All’origine della rivolta vi è quindi una ‘miccia’ circonfusa di disinformazione: un video virale, un accadimento che forse non è ‘reale’, accuse, smentite, possibili rovesciamenti di prospettiva. Questa situazione ci ricorda troppo da vicino molti avvenimenti tragici della guerra tuttora in corso in Ucraina: accuse reciproche, smentite, cadaveri ‘finti’, immagini di distruzione e morte che forse sono reali, forse sono fake. Quella presentata dal film è una dinamica che, al giorno d’oggi, è assai frequente: nella guerra in Ucraina ma non solo; anche in miriadi di situazioni simili a quella raccontata nella pellicola: agenti che sparano – spesso negli Usa – uccidono un giovane di colore, e scoppia la rivolta. Oppure, agenti che si dimostrano troppo zelanti e violenti nell’arresto di persone afroamericane. Anche nelle stesse banlieue parigine questi fatti sono all’ordine del giorno. Ma le dinamiche presentate da Athena si rivestono di oscurità: Karim chiede alla polizia di consegnargli gli agenti responsabili dell’uccisione del fratello, solo così potrà cessare la rivolta. Ma la polizia, dall’altra parte della barricata, risponde che “non esistono”. Come non esistono? E allora chi sono quegli ‘agenti’ del video che hanno assassinato il fratello di Karim?

Il film, come già accennato, possiede un respiro epico e tragico. D’altra parte, è lo stesso regista ad affermare di essersi ispirato alla tragedia greca. C’è una famiglia dilaniata, che scivola in un turbine di eventi tragici e c’è il topos, tipico della tragedia greca, della “casa che crolla” (le case del quartiere saranno oggetto di devastazione): c’è Karim, che guida la rivolta reclamando la vendetta per il fratello (quasi come una contemporanea versione maschile di Antigone, l’eroina di Sofocle che sfida il potere di Creonte per dare sepoltura al fratello Polinice); c’è suo fratello Abdel, un soldato appena tornato dalla guerra, che inizialmente vorrebbe far cessare la rivolta per giungere a un negoziato; c’è un altro fratello, capo violento di una gang di spacciatori e c’è una madre, mite e silente, immigrata appartenente a una precedente generazione, rappresa nell’indicibile dolore per la morte di un figlio e preoccupata per la sorte degli altri, soprattutto per Karim, il più piccolo. E poi ci sono miriadi di altri immigrati: volti scuri e miti di anziani, segnati dalla saggezza e dalla sopportazione, occhi che hanno visto chissà quali baratri infernali, e poi donne africane con bambini in braccio e altre famiglie nordafricane ma forse anche iraniane, irachene o pakistane. L’epicità delle scene è data dall’uso delle carrellate e dei piani sequenza che seguono quasi in tempo reale, rallentato e dilatato in una dimensione onirica, gli eventi drammatici degli scontri tra forze dell’ordine e rivoltosi. Karim e gli altri, barricati entro il fortilizio di Athena, sembrano i Troiani assediati dai Greci; lo stesso Karim potrebbe assumere in alcuni momenti le sembianze dell’eroe troiano Ettore ma anche del greco Achille, ferito dal dolore per l’uccisione di Patroclo. Gli umili, gli ultimi degli ultimi si sono stancati di “essere sempre le vittime della polizia”, come dice Karim. E intraprendono una guerra epica. Anche Abdel, successivamente, per motivi che non stiamo a rivelare (come non riveleremo l’illuminante finale), sceglierà di schierarsi al fianco della rivolta e intraprendere un personale percorso di martirio e di vendetta. In uno scenario che può evocare, oltre i poemi epici e la tragedia antica, anche le grandi tragedie di Shakespeare in cui un personaggio, da solo, porta fino in fondo la sua scelta contrapponendosi a tutto e a tutti.

Gli immigrati, gli emarginati, gli ultimi si rivoltano, e lo fanno con una dignità epica e tragica, con un coraggio e con una onestà portata fino agli estremi, fino a confondersi col dolore, la rabbia, il delirio dei corpi feriti e schiacciati da qualsiasi forma di potere. Vengono in mente i versi di Pier Paolo Pasolini dedicati a “Alì dagli occhi azzurri” (ispirati al poeta da Jean-Paul Sartre), raccolti in Poesia in forma di rosa (1964) in cui, parlando dei primi immigrati africani, così scriveva: “Essi sempre umili / essi sempre deboli / essi sempre timidi / essi sempre infimi / essi sempre colpevoli / essi sempre sudditi / essi sempre piccoli”, ma anche “essi che si costruirono / leggi fuori dalla legge”. E allora, “dietro ai loro Alì dagli occhi azzurri – usciranno da sotto la terra per rapinare – saliranno dal fondo del mare per uccidere, – scenderanno dall’alto del cielo per espropriare”. Del resto, come scrive Frantz Fanon ne I dannati della terra, “l’uomo colonizzato si libera nella e per la violenza”. Gli umili e gli ultimi non sono più umili, sono stanchi di subire, e si rivoltano come ne La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo, un grande film che potrebbe avere ispirato diverse sequenze di Athena.

Il film pone anche alla ribalta la situazione di emarginazione e di abbandono in cui vivono i giovani immigrati, anche quelli di ultima generazione (non solo, quindi, quelli appartenenti a famiglie già radicate nel paese d’immigrazione come quella di Karim: il fratello Abdel, infatti, è a tutti gli effetti un soldato dell’esercito francese). Una situazione che non è circoscrivibile solamente all’ambito d’oltralpe ma anche a quello di altri paesi, non da ultima l’Italia, in cui incontriamo comunque dinamiche differenti da quelle riscontrabili in Francia. Come scrive Emilio Quadrelli in un interessante articolo uscito su Carmilla, “la questione dei «minori stranieri» ha ben poco a che vedere con la devianza, la criminologia, l’antropologia, la cultura e amenità simili ma è interamente una questione politica anzi, con ogni probabilità, racchiude il cuore del «politico» contemporaneo”. E se Quadrelli si riferisce in particolar modo alla città di Genova, queste riflessioni potrebbero valere sicuramente anche per Livorno, in cui, di fronte a episodi di violenza che vedono coinvolti giovani stranieri, troppo spesso si invoca maggiore repressione invece di andare a scovare il cuore del problema, di carattere più prettamente politico. E, come vediamo anche da recentissimi episodi, si può pensare che invece questo nuovo governo si stia dirigendo verso la strada della repressione brutale e fine a sé stessa, volutamente cieca nei confronti di troppo fitte e intricate problematiche di carattere politico.

gvs