Il signore delle formiche – Recensione di Falco Ranuli
La vicenda di Aldo Braibanti, intellettuale marxista condannato per plagio nell’Italia anni ‘60, offre ancora adesso un inquietante monito a riflettere sul ventre molle del nostro paese, al di là delle polemiche social sul gender, sugli asterischi, sui cartoni animati che traviano i sacri valori della Famiglia. Il film di Gianni Amelio ha già questo meritorio punto di forza che ne rende necessaria la visione come monito per chiunque si sia dimenticato che cosa fosse l’Italietta prima della rivoluzione culturale dei sessanta/settanta, cioè un paese dove la diversità non solo sessuale, ma anche morale e intellettuale, poteva essere tranquillamente, non solo causa di esclusione sociale e di dileggio in mezzo all’approvazione dei più, ma addirittura non era impossibile trascinarla in Corte d’Assise, per una di quei tanti abomini del Codice Rocco che i parlamentari democratici avevano “dimenticato” di abrogare, un codice che ha lasciato i suoi lacerti velenosi sino ad adesso, visto che è stato in gran parte riformato, ma mai eliminato.
La storia, con qualche libertà d’interpretazione rispetto al reale, è quella dell’incontro, in un paese emiliano, di Braibanti, animatore della Torre (un luogo-comunità sede di varie esperienze artistiche) con un giovane ragazzo di grande sensibilità: l’incontro diventa una relazione d’amore che i due scelgono di vivere fuggendo a Roma. La famiglia del ragazzo, dominata da una madre bigotta, possessiva e moralista, interviene in maniera pesante con il rapimento dello stesso ragazzo, internato in una clinica psichiatrica e sottoposto a una serie di cure aberranti (psicofarmaci ed elettroshock) per guarire da questo amore che non può essere altro che malattia, secondo la famiglia e secondo la prevalente morale dell’epoca (ma direi che in molti la pensano così anche adesso). A questo punto il film diventa un classico trial movie (genere a cui Amelio ha già dato un capolavoro come Porte Aperte), la famiglia accusa Braibanti di plagio e, nonostante l’evidente insensatezza dell’accusa, un crescente sostegno degli intellettuali per il filosofo (che però, come nota acutamente lo stesso Braibanti nel film, a lui porta più danno che vantaggio), la testimonianza dello stesso ragazzo, la sentenza non può essere che di condanna, visto il clima in cui si svolge il processo e il clima generale del paese, che sta sì cambiando, ma nelle sue strutture di potere è rimasto quello di prima. E’ importante nel film una figura completamente immaginaria, quella di un giornalista dell’Unità che segue con passione il caso, probabilmente omosessuale “coperto”, che potrebbe anche rappresentare il punto di vista del regista del film, visto il fatto che l’identificazione con Braibanti, figura complessa e spigolosa (“Non voglio essere considerato un martire. Né mostro né martire”, dice) non viene volutamente proposta, grazie anche alla misuratissima, controllata e azzeccatissima performance di Luigi Lo Cascio, ottimo protagonista, come ottimo è tutto il cast, da Elio Germano nella parte del giornalista, ai due splendidi debuttanti, il soprano Anna Caterina Antonacci nei panni della madre (alla quale augurerei che questo sia l’inizio di una seconda luminosa carriera) e il giovane Leonardo Maltese in quelli del figlio. Ai meriti del film obietterei solo una piccola critica sul modo con cui presenta il punto di vista del PCI che, se è vero che era ancora largamente omofobo rispetto ai suoi militanti, ebbe una posizione di appoggio nei confronti di Braibanti, anche tramite la sua stampa che qui sembra essere censorio nei confronti del lavoro del giornalista che segue l’evento: curiosa anche la visione, improvvisa e immotivata, di Emma Bonino in persona, durante le proteste fuori dal Palazzaccio in favore di Braibanti.
Un film, infine, che è doppio – prima melò poi trial movie – che scansa bravamente la santificazione del protagonista che in qualche modo accetta con orgoglio l’essere altro di fronte a una società gretta, incapace di bellezza ed empatia, a cui quasi sembra contrapporsi il mondo solidale delle formiche che Braibanti, in quanto mirmecologo, studia con passione persino quando viene imprigionato; un film che parla del passato per parlare anche di oggi, di una società che forse si avvia a perdere la gran parte delle conquiste culturali di una lunga stagione di lotte di cui anche questa vicenda agghiacciante fa parte, perché chiunque di noi si sentisse portatore di una visione estranea della realtà – morale, sessuale, politica, culturale – in un sistema così dicotomico come sta tornando da diverso tempo il nostro mondo, sempre più diviso e incasellato, postmoderno e non più moderno, forse rischia una condanna e un’emarginazione, un linciaggio pubblico simile a quello che qui si narra, se prova a uscire dai ghetti della nostra vita liquida e affronta dimensioni diverse del mondo reale.
Per Codice Rosso
Falco Ranuli