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Viaggi coloniali fra politica, letteratura e tecnologia

Mario Coglitore, Viaggi coloniali. Politica, letteratura e tecnologia in movimento tra Ottocento e Novecento, prefazione di Barbara Henry, Il Poligrafo, Padova, 2020, pp. 159.

 

Come scrive Bertrand Westphal – uno dei maggiori esponenti della geocritica – è il discorso che fonda lo spazio. In poemi antichi come l’Odissea e le Argonautiche di Apollonio Rodio, ad esempio, attraverso il racconto, i mostruosi spazi pre-umani vengono inquadrati in una matrice solida e rassicurante, finalmente a misura d’uomo. Là dove passa il racconto, lo spazio viene, in un certo senso, antropizzato. Con un salto di secoli, si potrebbe pensare anche a Cuore di tenebra (Heart of darkness, 1899), di Joseph Conrad, in cui il viaggio si dirige verso uno spazio ancora non mappizzato, quel blank space del Continente Nero costruito dalla narrazione letteraria ma anche dalle svariate narrazioni culturali europee che identificano quello africano come uno spazio ‘altro’, diverso, lontano, esotico: il luogo in cui si trova l’Altro all’ennesima potenza. Mario Coglitore, nel suo interessante saggio Viaggi coloniali. Politica, letteratura e tecnologia in movimento tra Ottocento e Novecento, non allontanandosi poi troppo dall’intuizione di Westphal, scrive che “le parole disegnano le mappe”. Intendiamoci: le parole non sono soltanto quelle scritte, quelle della letteratura ma anche quelle che compongono le culture, che creano le narrazioni e i modi di sentire collettivi.

Viaggi coloniali fra politica, letteratura e tecnologia 2Il libro di Coglitore è dedicato al viaggio nei territori coloniali. D’altra parte, è necessario ricordare che il viaggio tout court è una vera e propria esperienza iniziatica che, come lo stesso autore ricorda, appartiene all’ordine del sacro. È un vero e proprio movimento verso l’altrove. Nella fattispecie, poi, il viaggio coloniale si configura come uno spostamento verso un angolo ancora non mappizzato per leggerlo e, letteralmente, costruirlo secondo la mentalità dominante europea del maschio bianco. Il saggio di Mario Coglitore spiega molto bene le dinamiche di questo tipo di spostamento, in pagine che, allontanandosi dalla tradizionale suddivisione in introduzione, primo capitolo, secondo capitolo ecc., riprendono le loro denominazioni dalla teoria musicale: “Ouverture”, “Primo movimento (adagio)”, “Secondo movimento (allegro)”, “Terzo movimento (presto)”, “Finale”. Le parole del saggio risuonano musicalmente dei vari, possibili aspetti del viaggio coloniale: l’aspetto più peculiarmente politico, affrontato a partire dalla figura di Roger Casement; quello più strettamente letterario, analizzato tramite un importante scrittore come Emilio Salgari; quello, infine, maggiormente connesso a dinamiche sociali, rappresentate in questo caso dal treno e dalla ferrovia. È probabilmente la letteratura a raccontare nel modo migliore il viaggio coloniale poiché essa, da un certo momento in poi, si fa portavoce della mentalità della borghesia europea. Il romanzo è il genere borghese che – nota Gianni Celati in Finzioni occidentali – assume il valore di una vera e propria rappresentazione simbolica del “fuori” nella società occidentale, della trasgressione, del viaggio verso nuove e sconosciute popolazioni. Come scrive Franco Moretti, citato dall’autore, la logica del colonialismo rappresentata da tanta letteratura sta nel “penetrare; prendere; andar via (e all’occorrenza distruggere). È la logica spaziale del colonialismo: replicata, e ‘naturalizzata’, dall’intreccio lineare”. La narrazione dominante creata dagli europei consisteva nel considerare gli abitanti dei paesi da colonizzare come “razze infantili, razze primitive”, dei veri e propri “popoli bambini” come ebbe a scrivere Rudyard Kipling. L’Oriente, poi, nella letteratura e nella cultura occidentali, stando alla lucida analisi di Edwuard W. Said, era approcciato secondo una “visione europea”: l’idea dell’Oriente che circolava in Europa era una merce preconfezionata per cui qualsiasi europeo che si avventurava nei territori orientali si aspettava di trovare popoli, usi e costumi che rispondessero perfettamente agli schemi imposti da tale idea. Se, poi, per tutto l’Ottocento e fino ai primi decenni del Novecento la figura dell’europeo ‘civilizzatore’ era rivestita di tratti quasi prometeici, già nel 1933, anno di uscita del Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, tale idea comincia gradatamente a sfaldarsi. I funzionari coloniali che si imbarcano per raggiungere l’Africa sono definiti da Céline come degli “utopisti idioti”, rappresentati con caratteri mostruosi e grotteschi: “Satolli, stravaccati, si rassomigliavano tutti adesso, ufficiali, funzionari, ingegneri e appaltatori d’imposte, pustolosi, panciuti, olivastri, mescolati, pressappoco identici. I cani assomigliano ai lupi, quando dormono”.

Su uno di questi funzionari, tratteggiato in un’epoca in cui la decadenza pareva ancora lontana, si focalizza il “Primo movimento” del libro. Si tratta di Roger Casement, uno “schietto portavoce della cultura coloniale per eccellenza, quella inglese”. Funzionario coloniale britannico e esploratore, Casement partecipò a diversi viaggi in Africa, soprattutto in Congo. Se dapprima era stato ligio all’ideologia colonialista, successivamente, deciderà di prendere le parti degli indigeni difendendone i diritti. Il suo Congo Report, del 1903 – scrive Coglitore – si presenta come “un vivido documento di denuncia delle atrocità commesse dai belgi nei confronti degli indigeni con la complicità di altre nazioni europee: massacri, mutilazioni, criminale sottrazione di risorse per salvaguardare il commercio della gomma e promuoverne l’espansione nel mercato mondiale”. Casement si poneva in contrasto con la visione politica coloniale dominante che intendeva assoggettare con la forza le popolazioni indigene alla cultura e alla religione europee. Egli, infatti, riteneva che “il subalterno non andava schiavizzato, a prezzo di orrendi massacri, ma aiutato, persuaso ad accogliere il modello occidentale, vincente per sua stessa natura, espressione quale era di una decisiva superiorità insita nella sua storia”. Come si vede, lo stereotipo coloniale è presente anche nelle parole di chi si è battuto per l’emancipazione pacifica dei popoli oppressi: l’atteggiamento di superiorità europea e ‘bianca’ nei confronti dell’altro sembra proprio ineliminabile. L’altro da sé, il non europeo, anche se “amichevole e cortese”, è “pur sempre qualcosa di diverso”. E comunque, Casement pagherà con la vita la sua decisione di schierarsi dalla parte dei popoli oppressi, siano essi africani o europei: venne infatti condannato all’impiccagione nel 1916 per alto tradimento, dopo aver cercato il sostegno della Germania contro la Gran Bretagna in favore dell’indipendentismo irlandese.

Il “Secondo movimento” è incentrato sulla figura di Emilio Salgari, un grande affabulatore di viaggi vissuti interamente nell’immaginazione, sfogliando le enciclopedie. I suoi romanzi sono imbevuti di quella mentalità “orientalista” messa in luce da Said: una visione dei paesi orientali che appartiene esclusivamente all’universo culturale dell’Occidente. Secondo la visione occidentale, le colonie orientali si possono conoscere soltanto a partire dalla necessità della conquista e sono abitate da “altri da sé” condannati a una perenne subalternità sociale e culturale. Se i romanzi di Salgari sono dominati da una mentalità di questo tipo, strettamente legata all’ideologia colonialista, è anche vero che essi ci descrivono, forse inconsapevolmente, – come sottolinea Coglitore – il colonialismo nei suoi vari aspetti, “modellando figure a tutto tondo di veri e propri rivoluzionari: partigiani e guerriglieri che resistevano all’ingordigia dell’imperialismo (il cosiddetto ciclo de I pirati della Malesia ne è l’esempio più classico)”. Perciò, si può dire che nel creatore di Sandokan convivano due aspetti: un “colonialismo umbertino, radicalmente contrario alla brutalità” e un “anticolonialismo istintivo e pieno di sentimento, improntato cioè a irrinunciabili ideali di libertà e giustizia contro qualsiasi forma di oppressione”. Uno dei punti di forza delle sue storie è la capacità di condurre il lettore verso un “altrove” esotico ma al contempo familiare “perché effetto della riproduzione del discorso occidentale sul Vicino Oriente o sull’Africa sconosciuta”. Pensiamo soltanto alla figura di Sandokan, tratteggiato quasi come un “principe” rivoluzionario che vive in stanze colme di suppellettili e di “cineserie” “per le quali impazzivano gli europei, che lo avvicinano di più a un ricco possidente della metropoli che a un reietto”.

Infine, il “Terzo movimento” del saggio è dedicato alla ferrovia nel viaggio coloniale. Le innovazioni tecnologiche hanno consentito in modo significativo al colonialismo europeo di occupare gran parte del territorio mondiale. Dopo la Rivoluzione Industriale, l’utilizzo del vapore per gli spostamenti (treni e navi) consente all’Occidente imperialista un rapido progresso che si realizza, spesso e volentieri, tramite lo sfruttamento dei paesi colonizzati. Gli europei, dopo aver colonizzato e assoggettato i paesi africani o orientali, costruivano la strada ferrata (che, giova ricordarlo, è molto più antica della locomotiva) per agevolare i trasporti e le comunicazioni in territori che, spesso, si presentavano estremamente vasti. Anche la costruzione della ferrovia rientrava quindi in una ‘europeizzazione’ dei paesi conquistati: essa, infatti, appartiene inequivocabilmente al paesaggio europeo, sia reale che mentale. L’analisi di Coglitore si concentra in particolare sulla costruzione della ferrovia Congo-Oceano, realizzata fra il 1921 e il 1934, definita come “una delle opere d’ingegneria più letali della storia coloniale”. I lavoratori vennero reclutati fra le tribù indigene, costretti a turni di lavoro massacranti e senza le più elementari condizioni igieniche (nei cantieri, la mortalità raggiunse molto probabilmente il tasso del 57 %). Questa “età eroica dell’ingegneria civile”, come rileva l’autore, presenta anche una faccia sanguinaria e feroce che non esita a massacrare e uccidere le popolazioni locali in nome del profitto economico.

Il colonialismo e la sua cultura – osserva Coglitore nel “Finale” – continuano inesorabilmente a durare anche quando gli eserciti europei si ritirano e apparentemente le popolazioni vengono ‘liberate’. Il pervasivo “Occhio dell’Impero” diventa onnipresente, così profondamente imposto da apparire naturale. Continua sottilmente a sussistere nelle creazioni artistiche degli ‘esotici’ paesi colonizzati che gli europei espongono nei loro salotti, oggetti da collezione dietro i quali si celano anni di brutali imposizioni e sofferenze. Le scritture di viaggio, analizzate in modo netto e preciso da questo studio, hanno contribuito a creare una narrazione, un modo di sentire, un vero e proprio “ordine del discorso”, per citare Foucault, legato alla cultura colonialista. Un sottile reticolo di relazioni tra sapere e potere, tra cultura e politica che attende ancora nuovi e decisivi percorsi di liberazione.

Guy van Stratten

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