Comunicazione e culture

Ucraina, i morti ci sono davvero?

Dal gennaio del 1991 al marzo dello stesso anno, Jean Baudrillard dedicò tre articoli, a suo modo storici, alla prima guerra del Golfo, quello che è stato il vero evento militare successivo caduta del muro di Berlino. Si trattò, in effetti, di una guerra che segnò uno spartiacque, politico e diplomatico, tra il mondo come era stato dalla fine della seconda guerra mondiale e il nostro, nel quale le guerre si sono moltiplicate e sono arrivate anche in Europa. Gli articoli dettero vita a un libretto La Guerre du Golfe n’a pas eu lieu, pubblicato poco dopo e tradotto in diverse lingue.

Gli articoli, pubblicati da Libération, e il libretto, di Baudrillard si distendevano su tre diversi momenti temporali della guerra (prologo, svolgimento e fine) dai titoli significativi La guerra del Golfo accadrà?, La guerra del Golfo sta accadendo? e, infine, La guerra del Golfo non è mai accaduta.

Il primo articolo riprendeva il titolo di una tragedia di Jean Girardoux del 1935, La guerra di Troia non accadrà, dedicata ai paradossi generati dal timore della guerra mondiale, mentre gli altri sviluppavano, da differenti punti di vista temporali, il tema originario del primo articolo del gennaio 1991.  In generale si trattava non di un libretto che negava l’esistenza della guerra, e dei suoi massacri, ma che poneva il problema della rappresentazione dei conflitti che, a partire dagli anni ’90, si delineava come un processo, paradossale, di evaporazione dell’esistenza della guerra stessa.

Per Baudrillard la guerra del Golfo del ’91, prologo alla disastrosa occupazione dell’Iraq del 2003, non era una guerra ma un massacro, vista la sproporzione militare tra le parti, mediaticamente travestito da guerra. La rappresentazione globale mediale del massacro, quello trasformato in guerra, aveva reso poi impossibile, all’opinione pubblica di comprendere cosa era successo tanto da far affermare a Baudrillard che, dal punto di vista occidentale, “la guerra non è mai accaduta”. Le morti di massa non trovavano rappresentazione, quindi spiegazione, allora semplicemente non erano accadute. Non essendo accadute non c’era stata guerra mentre i morti erano finiti nella significazione culturale del nulla.

Questo perché, sempre per l’autore di La Guerre du Golfe n’a pas eu lieu , tutto quello che l’opinione pubblica occidentale ha visto in Iraq nel 1991 è stata una circolazione di immagini di propaganda che ha reso indistinguibile cosa è accaduto nel conflitto da una rappresentazione fatta da simulacri scelti per impressionare l’opinione pubblica.

Bisogna quindi comprendere che, nelle nostre società, dal punto di vista comunicativo, per distinguere i fatti dalla rappresentazione per simulacri, e dare un ordine logico e morale a quanto accade, risulta decisiva la rappresentazione dei morti. Il modo con la quale una società rappresenta i cadaveri, nel senso di rendere dignità od offendere, risulta così fondamentale per creare ordine o disordine vista l’importanza del ruolo sociale della sepoltura, e del trattamento del cadavere, in ogni società.

Infatti i cadaveri, in quella guerra del ’91, sparirono del tutto, dal circuito globale delle tv, creando disorientamento tanto da far chiedere provocatoriamente a Baudrillard se mai questa avesse avuto luogo. Mentre i cadaveri, oggi, pongono conflitti di attribuzione delle responsabilità mediaticamente molto violenti,  creando, ad esempio a Bucha, disorientamento generalizzato come durante la rappresentazione del conflitto di trenta anni fa, oppure desiderio di vendetta se si aderisce alla ricostruzione di una delle due parti in guerra.

Qui, per intendersi su cosa stiamo parlando, dobbiamo tornare a Robert Hertz, antropologo scomparso sul fronte della prima guerra mondiale, e il suo Il peccato e l’espiazione nelle società primitive, pubblicato postumo. Proprio in Hertz la rappresentazione collettiva della morte, e del cadavere,  risulta decisiva per l’ordine o il disordine collettivo delle società: da questa dipendono o il ripristino dell’equilibrio collettivo precedente al lutto o la sua irredimibile violazione con la scia di ulteriori conflitti, e desideri di vendetta, che questo comporta. Dalla rappresentazione e dalla composizione del cadavere dipendono infatti governo delle emozioni, ordine degli eventi, coesione sociale, spiegazione morale e gerarchie di potere.

A causa di questo campo di forza, presente anche nelle nostre società, diviene decisiva la rappresentazione della morte e del cadavere durante un conflitto: sposta masse di pubblica opinione che consumano emotività per elaborare il lutto, donare consenso, certificare ordine e ragioni morali oppure manifestare il proprio disorientamento, chiedere vendetta, alimentare ulteriori conflitti.

Quello che è avvenuto a Bucha – avvenuto nelle Bucha di tutto il mondo e pronto ad avvenire nelle prossime –  è stato un massacro reale e poi uno scontro, tra ucraini e russi, sulla significazione delle immagini dei cadaveri, sulla capacità di indicare i responsabili iscritta in queste immagini e sull’ordine morale e sociale registrato in questo processo di significazione delle immagini.

A differenza della guerra di Baudrillard, nella quale i morti erano semplicemente omessi dai media, la sovrabbondanza odierna di immagini di cadaveri, grazie anche alla presenza dei social, e lo scontro sul loro significato, ha reso i corpi immagini senza significato, distrutto dalla critica, dal fuoco simmetrico delle propagande di entrambi i fronti.
Le immagini di cadaveri insepolti a Bucha, privi quindi della dignità resa loro dai riti di elaborazione del lutto, delegittimano e fanno perdere consenso, tanto più in tempo di guerra, ai responsabili di quanto accaduto. Per questo, a prescindere dai fatti avvenuti sul campo, ucraini e russi si accusano a vicenda su Bucha: perdere la guerra della significazione dei cadaveri, dell’attribuzione delle responsabilità sui civili massacrati, è perdere il consenso di larga parte della opinione pubblica. Ma il conflitto sulle responsabilità verso i cadaveri insepolti, la guerra mediale e social fatta di smentite e delegittimazioni delle ricostruzioni degli eventi operate dal nemico, è qualcosa di così fitto che fa perdere complessivamente l’orientamento su quanto accaduto.

Lo dicono gli stessi analisti militari: l’unica cosa chiara quando i fatti sono in mano alla propaganda di entrambi i fronti, oggi a Bucha domani altrove, è l’esistenza dei cadaveri poi i conflitti di interpretazione su quanto accaduto sono così fitti che, distruggendo ogni ricostruzione, i morti sul selciato appaiono sia evidenti che privi di significato. Visto che, con la guerra dell’informazione, evaporano fatti, responsabilità, senso di quanto accaduto.Le stesse immagini sui media, o sui social, che significano la responsabilità o russa o ucraina su Bucha producono quindi un solo effetto: separano l’immagine da quanto accaduto, dalla realtà. Quando avviene questa separazione, antropologicamente parlando, si tratta di simulacro, immagine irrimediabilmente separata dalla realtà: nella guerra di oggi in Ucraina come in quella di 30 anni fa in Medio Oriente.

E non si creda: anche la verità forense, quella costituita in occidente per restituire alle società democratiche certezze tramite una ricostruzione procedurale dei fatti avrà enormi difficoltà per domare il drago a due teste dello scontro di attribuzione di stragi, tra ucraini e russi, come quelle di Bucha. Tra eccezioni procedurali, scontri politici travestiti da differenti concezioni del diritto, montagne di “prove” digitali costruite per entrambe le tesi, testimoni che danno indicazioni contrarie sullo stesso fatto, mappe satellitari che provano tutto e il suo contrario, il rischio di rimandare la verità alla fase delle inchieste è quello di fare scomparire il vero su Bucha in un nulla giuridico.

Bucha ci mostra  come i conflitti tra informazione e la disinformazione di guerra poggiano il loro potere socialmente significativo, antropologicamente profondo, sulla rappresentazione dell’evento della morte e su quella del trattamento dei cadaveri. E ci mostra anche che i cadaveri faticano a diventare morti – con un senso, una attribuzione di responsabilità, una sepoltura dignitosa – perché avviluppati da un processo straniante fatto di simulacri e di media che si sovrappongono ai lutti e ai dolori della guerra.

E così la morte senza significato, frutto di violentissimi scontri mediatici sull’attribuzione delle responsabilità, così forti da far sospendere ogni attribuzione di significato alle immagini dei cadaveri, si presenta come la costante antropologica delle guerre del nostro mondo: dalla prima guerra del Golfo, alle torri gemelle, alla seconda guerra del Golfo – fatta in nome di immagini di armi di distruzione di massa mai esistite, simulacri puri frutto di un ordine politico mondiale saltato in aria – e poi via in Libia, in Siria e oggi nel conflitto russo-ucraino.

Mentre Zelensky, accompagnato dai media mondiali, va sul set di Bucha, Lavrov, più paludato, cerca quello delle Nazioni Unite sul quale affermare la propria verità, l’assenza di significazione della morte, accompagnata dal senso di disorientamento e dal desiderio di vendetta, si candida a depositare nuove, e più velenose, uova nel grembo non solo dei villaggi russo-ucraini ma anche in quello del villaggio globale.

Per codice rosso, nlp 

 

 

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